Bologna, mercoledì 29 dicembre 2021 – Julia Krajewski a Tokyo lunedì 2 agosto 2021 in sella ad Amande de B’Neville ha conquistato un record che le apparterrà eternamente nella storia della vita, del mondo e dello sport: lei è la prima donna ad aver vinto la medaglia d’oro individuale alle Olimpiadi di completo. La prima: e dunque prima rimarrà per sempre.
La statunitense Lana du Pont è stata la prima amazzone a partecipare e nello stesso tempo a vincere una medaglia a squadre (Tokyo 1964, Stati Uniti al 2° posto), la statunitense Karen Stives e la britannica Virginia Holgate sono state contestualmente le prime amazzoni a vincere una medaglia individuale (rispettivamente argento e bronzo a Los Angeles nel 1984), ma mai un’amazzone prima di Julia Krajewski era riuscita ad arrivare sul gradino più alto del podio. E dire che il completo nel corso degli anni è divenuto una specialità molto femminile: grandi campionesse hanno caratterizzato con prestazioni formidabili tutte le gare più importanti e prestigiose… Ma l’oro individuale alle Olimpiadi mai.
Su questa impresa che definire epocale non è certo esagerato adesso c’è la sua firma: Julia Krajewski, 33 anni, tedesca, amazzone che prima di Tokyo aveva già assaporato il gusto del podio olimpico conquistando l’argento a squadre a Rio 2016, tuttavia terminando con l’eliminazione la sua prova individuale.
Julia Krajewski: che effetto le fa essere la prima donna a vincere la medaglia d’oro olimpica individuale in completo?
«Sono stata molto sorpresa di essere la prima donna a riuscire in questa impresa, calcolando il grande numero di amazzoni vincenti ai massimi livelli nel nostro sport, soprattutto se consideriamo che il campione del mondo è una donna, il campione d’Europa è una donna… Credo che fosse ora che un’amazzone vincesse l’oro olimpico individuale, e naturalmente sono molto contenta di essere io quell’amazzone… ».
Secondo lei in completo ci sono svantaggi e vantaggi nell’essere donna o uomo?
«Penso che da un punto vista di competitività non ci sia alcuna differenza. Ci sono talmente tanti aspetti da prendere in considerazione, non ultimo la grande quantità di cavalli di diverso tipo. Così tanti fattori che giocano un ruolo determinante… ».
Ecco, quali sono questi fattori dal suo punto di vista?
«Alla fin fine la questione è avere la giusta sensibilità circa il movimento del cavallo, essere dentro lo sport con la giusta mentalità, con la capacità di controllare il proprio corpo, con la capacità di portare il cavallo alla migliore forma fisica, e tutto questo non è influenzabile dall’appartenenza di chi monta a un genere o all’altro. Ovviamente ci sono alcuni cavalli difficili da montare per una donna, per una questione di fisico e di dimensioni, ma a ben vedere ogni cavaliere deve trovare il cavallo più adatto a sé stesso: vale per le donne come per gli uomini. Inoltre dal momento che nel nostro sport si può competere per un periodo molto lungo della vita vediamo anche molti esempi di donne che riescono ad avere una famiglia e dei figli pur gareggiando ai massimi livelli».
Parliamo di Olimpiadi. Lei nel 2016 era la riserva della squadra, poi è effettivamente scesa in campo a causa dell’indisponibilità di un cavallo titolare, mentre a Tokyo è stata tutta un’altra storia: quali sono state le principali differenze nel vivere queste due esperienze?
«Due situazioni completamente diverse. Cinque anni fa la mia partecipazione è stata una sorpresa, sebbene una riserva debba sempre tenere in conto di poter essere effettivamente utilizzata. Avevo appena ottenuto il mio primo risultato importante in un completo a cinque stelle ed ero quasi una novellina per l’alto livello agonistico. A ripensarci oggi devo riconoscere che quell’impegno non è arrivato nel momento migliore per il mio cavallo, anche perché poi quelle sono state Olimpiadi davvero molto difficili. Samurai du Thot in effetti non era pronto in quel momento per quel livello di competizione. Ma sono stata convocata e quindi mi sono detta ok, andiamo… e naturalmente ho cercato di fare del mio meglio».
Tokyo invece?
«Sono passati cinque anni… Ci sono arrivata dopo un percorso fatto di molti alti e di molti bassi, di momenti anche difficili, ma con più competizioni di alto livello nel mio curriculum: alcuni cinque stelle, il Campionato del Mondo, il Campionato d’Europa, Aquisgrana, Blenheim, e con diversi cavalli, e quindi molto più preparata. Sapevo cosa voleva dire fare un’Olimpiade, sapevo cosa voleva dire confrontarsi con quella pressione, sapevo come ci si sente se le cose vanno male, ma sapevo anche come fare per farle andare bene… Insomma, ero molto più preparata direi non tanto per quanto riguarda il montare a cavallo in senso proprio, quanto piuttosto su tutto quello che gira intorno».
A Tokyo si è gareggiato con le squadre composte da tre anziché da quattro binomi. Su questo cambiamento si è discusso molto, per tutte e tre le discipline olimpiche. Dopo averlo sperimentato personalmente, lei cosa ne pensa?
«Credo che sicuramente il format a tre sia migliore per gli spettatori e per le persone che seguono la competizione da casa: è più eccitante, si conosce il risultato della squadra immediatamente. Da questo punto di vista riconosco che si tratta di un formato che funziona. Ma sotto il profilo dello sport, dal punto di vista del cavaliere… beh, io preferisco il formato a quattro. Ci può sempre essere un cavallo o un cavaliere con un problema… ».
A proposito di cambiamenti, il completo nel corso degli ultimi vent’anni ha subito profonde trasformazioni: nella prova di campagna non ci sono più le marce e lo steeple, sono stati introdotti i meccanismi per rendere gli ostacoli frangibili e collassabili, gli ostacoli stessi sono sempre meno naturali… Cosa pensa di tutto questo? Pensa che lo spirito originale del completo ne risulti compromesso?
«Che il completo sia cambiato tantissimo è innegabile, ma è anche innegabile che si sia trattato di un cambiamento necessario. Le persone non vogliono più vedere eventi drammatici come quelli a cui ogni tanto in passato abbiamo assistito. Io penso che ci vogliano sempre più conoscenza e capacità di vivere con i cavalli per raggiungere l’alto livello e poi rimanervi. Dobbiamo mantenere il nostro sport nella famiglia olimpica e dunque bisogna fare tutto il possibile per adeguarci alle esigenze e alle richieste dell’attualità. Tutto cambia con il passare del tempo: una volta la prova di cross era davvero pesante per cavalli e cavalieri, in generale i cambiamenti che sono stati apportati vanno nel senso di un grande miglioramento per i cavalli, per i cavalieri, per la sicurezza».
Una delle conseguenze di ciò è che la prova di dressage è diventata sempre più importante…
«Sì e no, in effetti. Negli ultimi anni in realtà è stato il salto ostacoli ad aver assunto un’importanza preponderante. Guardiamo alle Olimpiadi di Tokyo, per esempio: quello di cui c’è stato bisogno alla fine era soprattutto un cavallo eccellente in salto ostacoli. Dei cavalli che hanno vinto le medaglie individuali nessuno è naturalmente predisposto per il dressage e di conseguenza per nessuno di loro è stato facile il test in rettangolo: è stata una precisa responsabilità dei loro cavalieri quella di farli rendere al meglio. Ma altrettanto certamente quei tre cavalli sono tutti super saltatori. E alla fine mettere più enfasi sul salto è un modo per rendere più sicuro il cross country e meno importante il dressage».
Parlando di cavalli, è una semplice coincidenza che lei, tedesca e quindi proveniente da un Paese che ha nell’allevamento una risorsa enorme, in realtà abbia montato alle Olimpiadi sia di Rio sia di Tokyo due cavalli francesi?
«In parte è una coincidenza, sì, ma è anche vero che entrambi provengono dalla stessa persona con la quale lavoriamo molto spesso insieme: quando lei trova qualche buon cavallo giovane si rivolge sempre a me per sapere se mi può interessare montarlo. Però a parte questo è vero che io amo molto i cavalli francesi, penso che abbiano qualcosa in più. Sono cavalli molto intelligenti, magari non facilissimi in dressage, ma hanno molto sangue proveniente dalla matrice anglo araba e questo per un moderno cavallo da completo è un aspetto importantissimo».
Cosa le piace di più delle prove di completo: rettangolo, cross, salto… ?
«Dipende molto dal cavallo che monto. Io penso di essere sufficientemente brava in dressage ma non vorrei essere un’amazzone di puro dressage… troppo noioso! Però con un cavallo che dà soddisfazione mi piace lavorare in piano. Ovviamente il cross country è eccitante, divertente, elettrizzante: ma allo stesso tempo è la prova che mette maggiore pressione e se qualcosa va male è… insomma, io sono sempre nervosa prima del cross! Il salto ostacoli con la mia Amande per esempio è favoloso, lei è il miglior cavallo che io abbia mai avuto per il salto ostacoli. Quindi in realtà non ho una prova preferita: alla fine dipende sempre dal cavallo che si sta montando».
Lei ha cominciato a montare perché proviene da una famiglia di gente di cavalli?
«No, in realtà no. Mio papà, che purtroppo è mancato all’inizio dell’anno, era un geofisico, mia mamma veterinaria. In realtà ho cominciato a montare d’estate in vacanza con i pony, poi quando avevo cinque anni ci siamo trasferiti dalla città in un piccolo paese di campagna e mia mamma ha pensato che per tenerci impegnati fosse una buona idea avere dei pony. Il resto è venuto in modo molto naturale. Mia mamma aveva un amico che montava in completo in gare di livello nazionale e così è cominciato tutto».
Quindi è stata questa persona che l’ha orientata verso il completo?
«Il fatto è che a un certo punto ho avuto un pony di 4 anni, uno stalloncino, non potevamo permettercene uno più maturo e più costoso, e l’idea era quella di dedicarlo al dressage ma lui non era assolutamente adatto allo scopo. Allora abbiamo pensato che il completo sarebbe forse stato meglio: così sono andata alla selezione per la squadra regionale e il coach mi ha consigliato di dedicarmi al completo con il mio pony. E lui è stato proprio il pony con il quale vent’anni fa ho fatto il Campionato d’Europa vincendo una doppia medaglia d’oro… A ripensarci oggi devo ammettere che in quel momento non avevo la minima idea di quello che stavo facendo, ma pensavo che fosse molto divertente e soprattutto che fosse molto facile vincere le medaglie… ! Non potevo certo immaginare quanto difficile sarebbe stato tutto in realtà… ».
Oggi lei ha una sua scuderia?
«No, non ancora… Adesso sto nel Centro Nazionale di Warendorf e ho lì una scuderia con una decina di cavalli. Il mio lavoro è anche quello di essere il tecnico nazionale per gli juniores di completo, quindi divido il mio tempo tra il montare a cavallo e l’insegnare e allenare i ragazzi».
Le piace il ruolo di tecnico?
«Moltissimo! È anche un’attività che insegna a vedere le cose secondo una diversa prospettiva».
Quindi utile anche per il suo montare?
«Sì, certo, quando insegno penso alle cose e ai problemi in modo diverso rispetto a quando monto, e questo poi mi può servire quando sarò in sella a mia volta. E inoltre essere un tecnico e sapere quali sono quei pensieri e quei problemi quando si va a un campionato internazionale, decidere chi parte e chi no, chi lo deve fare prima e chi dopo… tutto questo è molto utile nel momento in cui sono io il cavaliere che fa parte di una squadra».