Milano, 29 settembre 2018 – Andate in Sud-America, prendete la pianura più fertile del mondo e copritela d’erba.
Erba altissima, saporita, nutriente, solo erba, erba a perdita d’occhio e più in là ancora: fatto?
Ecco, adesso avete le Pampas argentine; il che vuol dire 750.000 chilometri quadrati d’erba, ogni tanto qualche ombù (alberi che non sono alberi, ma sembrano alberi) e una miriade di piccole vite che fanno fremere ogni stelo, ogni singola foglia. Armadilli, sciacalli, e tanti altri coraggiosi abitanti di spazi così selvaggi e sterminati che hanno resistito all’invasione dell’uomo (al contrario di altri più timidi o indifesi come nandù, cervi, puma e guanachi che si sono rifugiati negli angoli più inaccessibili, quelli che si arrampicano su per le sierre che si indovinano appena all’orizzonte).
Vicino all’oceano paludi, leggere ondulazioni verso la parte interna del continente, più siccitosa e ogni tanto il pampero, un gelido vento che arriva dal Polo Sud, porta freddo e tempeste.
Ma non vi sembra che manchi qualcosa in questo paradiso d’erba? Certo che sì: mancano i cavalli o meglio mancavano sino al febbraio del 1536, quando el conquistador Pedro de Mendoza fonda ufficialmente la città di Buenos Aires: era sbarcato appena il mese prima dalla Spagna con uomini e cavalli, i primi della loro specie a brucare quel ben di Dio sudamericano. Questa prima colonizzazione spagnola durò poco: dopo nemmeno un anno gli indios distrussero la cittadella e scacciarono gli invasori iberici che tornarono alle loro navi lasciandosi dietro, nella fretta, cinque stalloni e sette cavalle che ebbero tutte la pampas a loro disposizione per pascolare, crescere e moltiplicarsi.
Quando nel 1580 Juan de Garay, altro esploratore bellicoso alle dipendenze delle Cattolicissime Maestà, tornò da quelle parti a rifondare Buenos Aires trovò una quantità meravigliosa di cavalli: erano tutti discendenti degli spagnoli di Mendoza, adattatisi perfettamente al nuovo ambiente e pronti per essere riaddomesticati, alla bisogna. Da lì in poi le pampas acquistarono un nuovo, importantissimo inquilino: il cavallo Criollo.
Gli indios impararono ben presto a servirsene per la caccia, la guerra e come preziosissimo mezzo di trasporto e parte del loro sapere passò poi nel patrimonio culturale dei gauchos.
Questi erano mandriani, abilissimi cavalieri, spesso figli di coloni spagnoli e ragazze indie e riassumevano in se due mondi completamente diversi e lontani che dovevano imparare a convivere, in qualche modo. Lo fecero molto lentamente e in modo molto traumatico (le guerre contro gli Indios continuarono sino al 1896), ma almeno il cavallo Criollo univa tutti. Era l’unico mezzo di trasporto possibile in quell’oceano d’erba, l’unico aiuto per governare le immense mandrie di bestiame che producevano la più grande ricchezza del paese e anche l’unico amico fedele di uomini che strappavano alla vita un giorno durissimo dopo l’altro.
Indios o gauchos che fossero ogni speranza, ogni possibilità per loro erano legate all’affidabilità, alla velocità e all’obbedienza del loro cavallo: un buon cavallo, bene addestrato veniva definito «pingo». Il metodo indio per addestrare i cavalli era più dolce ed empatico, quello dei gauchos più duro e sbrigativo ma entrambi avevano come unico fine la rispondenza assoluta e immediata dell’allievo alla volontà del cavaliere. In un mondo del genere se non avevi una monta sicura rischiavi la morte ogni giorno, non c’è margine di errore quando anche soltanto cadere e rompersi una gamba può voler dire la fine: perché nessuno può trovarti affondato in un mare d’erba spazzato dal vento, anche se sei soltanto a un galoppo da casa.
Di qui l’importanza di selezionare un tipo equino che non solo fosse estremamente solido, rustico, adattabile (e a questo pensavano l’ambiente e il clima); ma anche estremamente disponibile al lavoro con l’uomo, coraggioso e capace di imparare bene e in fretta. I soggetti portati dagli spagnoli erano diventati cinque milioni in soli quattro secoli: ogni gaucho aveva sempre almeno una decina di cavali a sua disposizione, che alternava frequentemente per dar loro riposo. Davvero il mondo ideale per un equino, tanto che neppure nel periodo nero per i cavalli europei (la seconda guerra mondiale) i loro confratelli sudamericani corsero il rischio di trovarsi disoccupati: non ci sono altri mezzi per andare a recuperare, radunare e guidare il bestiame bovino e ovino allevato così intensamente nelle pampas.
Il pericolo era un altro, se ne era reso conto il dottor Emilio Solanet attorno agli anni ’20: dopo il boom economico di fine ‘800 i grandi proprietari importavano diversi cavalli del più raffinato sangue europeo, che una volta immessi nei pascoli andavano a incrociarsi con i Criollos diluendone le doti di resistenza e frugalità selezionate da 400 anni di vita brada in ambiente ostile. Il tipo originale si stava perdendo e oramai solo i branchi più isolati erano indenni da interferenze troppo eleganti.
Solanet assieme ad alcuni illuminati allevatori prese in mano le redini della situazione, avviò una seleziona scientifica dei soggetti rispondenti ai canoni tradizionali e fondò la Associazione Allevatori del Cavallo Criollo.
Non solo: con un colpo di genio trovò il modo di pubblicizzare al meglio i cavalli dei gauchos. Affidò due dei suoi soggetti più tipici, Gato e Mancha, al cavaliere svizzero Aimé Felix Tschiffely che con loro si mise in viaggio da Buenos Aires per arrivare a New York dopo 3 anni, 4 mesi e 6 giorni di viaggio. 21.550 chilometri suddivisi in 504 tappe, percorrendo 46,2 km. di media al giorno: un’impresa epica che consegnò Mancha e Gato ad una meritatissima, dorata pensione e la razza Criolla alla gloria più luminosa.
Oggi non solo i cavalli più tipici dell’Argentina non corrono nessun rischio di estinguersi, ma sono riusciti nell’impresa di una colonizzazione di ritorno che non ha precedenti nella storia dell’ippologia: negli anni ’80 migliaia e migliaia di cavalli argentini (forse non tutti Criollos dei più pregiati, ma certamente mestizos a loro molto vicini) tornarono in Europa sulle navi bestiame. Sbarcarono tutti sulla nostra penisola: su quei cavalli indistruttibili, resistentissimi e affidabili in modo proverbiale si può dire che l’Italia si sia rimessa in sella.
Forse non subito in modo elegante e corretto, certamente: ma grazie alla pazienza, al mestiere e all’addestramento incrollabile di tutti quei cavalli venuti dall’Argentina l’equitazione è tornata di nuovo familiare a noi italiani, dopo decenni di orfanaggio equestre quando a montare in sella erano rimasti quasi solo i fantini del galoppo e le poche centinaia di iscritti alla Fise (negli anni ’50 non erano molti di più), un’élite certo invidiabile per il tasso tecnico ma sparuta numericamente. Chi di noi non ha montato un argentino, vent’anni fa? Erano sempre i più sicuri, i più tranquilli, i più divertenti e facili da montare e tutto per merito di quanto avevano imparato dai loro gauchos prima di arrivare da noi, a insegnarci di nuovo cos’era un cavallo: gracias, queridos amigos.
Il criollo
Discende per via diretta dai superbi spagnoli dei conquistadores: ma erano spagnoli del 1500, ancora molto vicini all’influenza Berbera, non i soggetti più raffinati dei secoli seguenti. La rusticità degli avi nord-africani venne buona anche per i loro nipoti emigrati in America Latina, e la vita brada in un ambiente caratterizzato da escursioni termiche estreme selezionò soggetti di taglia contenuta, solidi, compatti, estremamente frugali e robusti. I Criollos possono essere di tutti i mantelli possibili e forse anche di più – ormai mitico il favoloso yaguané, un morello con due strisce laterali bianche lungo tutta l’incollatura e la schiena – ma il più amato dai gauchos è sicuramente il gateado, un isabella più scuro con graffi neri che somiglia molto al colore dell’erba secca della pampa. Non vengono apprezzati i pintados (tipo appaloosa), i tobiani e quelli troppo depigmentati. Il Criollo è molto longevo, l’altezza al garrese non supera mai il metro e cinquanta e per mantenere la selezione verso un indirizzo di efficienza fisica a tutta prova ogni anno viene organizzata in Argentina la Marcha Anual del Caballo Criollo: 750 km. da percorrere in 15 giorni (uno solo di riposo), con un peso minimo di 95 kg. Il cavallo durante questa prova può bere e mangiare solo quello che trova lungo la strada. Il Criollo è diffuso in tutto il Sud-America, si differenzia leggermente da un paese all’altro per via delle diverse condizioni pedo-climatiche ma ogni ceppo condivide fraternamente la stessa origine.
Gato e Mancha
Solanet aveva acquistato i due Criollos che fecero l’impresa da un capo degli indios Tehuelque. Gato era un gateado di 16 anni, Mancha un overo di 15. All’inizio non erano molto accomodanti con lo svizzero Aimé Felix Tschiffely, il loro cavaliere: Mancha era estremamente diffidente con gli estranei, montava costantemente la guardia al loro piccolo accampamento e non esitava a sollevare minacciosamente un posteriore se qualcuno si avvicinava troppo. Gato si lasciò domare più facilmente, una volta appurato che Felix non si lasciava impressionare dalle sue difese si rassegnò filosoficamente al suo compito e non sollevò più difficoltà. Tschiffely nelle sue memorie ricorda con caldo affetto le lunghe notti sotto le stelle, con i suoi due amici che pur slegati non si allontanavano mai da lui e lo vegliavano come angeli custodi. Gato e Mancha morirono in età avanzatissima e in ricordo del loro storico arrivo a New York in Argentina ogni anno, il 20 di settembre, si festeggia “Il Giorno del Cavallo”.
Il nostro gancio gaucho: Jorge Poggi.
E’ in Italia ormai da 30 anni ma non ha ancora perso l’accento argentino: Jorge Poggi, istruttore FISE di II livello, pratica da sempre il salto ostacoli ma non ha mai dimenticato da dove viene. A cavallo prima ancora di nascere (la mamma era figlia di un gaucho e di una india e ha continuato tranquillamente a montare anche mentre lo aspettava) tra una lezione e l’altra è facile che si lasci andare ai ricordi e racconti del nonno, arruolato durante l’ultima guerra contro gli indios e addestratore di cavalli per l’esercito. Come molti argentini può citare a memoria interi brani del Martin Fierro (l’epopea di un gaucho scritta da José Hernandez e pubblicata nel 1872) e ovviamente ha una attenzione particolare per i passi che parlano di cavalli: «Es de mucha inocencia Y tiene mucho sentido; Es animal consentido: lo cautiva la pacencia». Tradotto malamente in italiano: il cavallo è pieno di innocenza e sensibilità, ed è un animale senziente: lo conquista la pazienza. Vale la pena armarsi di un dizionario e leggersi tutto il Martin Fierro, introvabile in una buona traduzione italiana…ma farselo raccontare da Jorge è molto più facile!