Pisa, 25 luglio 2017 – Sem Petrucci è morto ieri nella sua casa di Pisa a 67 anni, dopo una lunga malattia che ha voluto tenere accuratamente nascosta: funzionario di banca in pensione ma prima di tutto innamorato dei cavalli e della cultura di Maremma, persona ironica e intelligente, impegnato in politica come nel mondo della monta da lavoro (era stato tra le altre cose presidente dell’Associazione Monta Maremmana), è entrato un po’ nella vita di tutti noi grazie ai libri che ha scritto in tanti anni e parlano della sua e nostra passione – uno per tutti, Romanzo per uomini soli a cavallo, uno dei primi ad uscire fuori dagli scaffali un po’ stretti delle cose equestri e guadagnarsi l’attenzione anche di un altro pubblico di lettori.
Sem Petrucci lascia la moglie Lucia, il figlio Diego (avvocato e sindaco di Abetone Cutigliano) e la figlia Francesca, nostra collega e a sua volta scrittrice: non ci sono parole migiori delle sue per raccontarvi chi era Petrucci, ve le riportiamo qui dalla sua pagina Facebook.
«Né di vene né di marte ci si sposa né si parte…e babbo è sempre stato superstizioso, quindi oggi non si va da nessuna parte. Si aspetta. Che cosa lo sappiamo, ma non lo vogliamo pronunciare, perché la Morte resta pur sempre una misteriosa signora che non ama la prevedibilità, e quando entrare in scena lo decide lei, perfino quando è ufficialmente un ospite preannunciato. Sappiamo che è nell’aria, che passerà dalla nostra casa, per portare con sé babbo Sem; aleggia tra le stanze, gli accarezza le lunghe dita ossute, la fronte pallida, il volto scavato. Gli entra negli occhi velati, tra le poche parole pronunciate con fatica. Lui la sente, la desidera e al tempo stesso la scaccia. È un dialogo fra loro, che noi non possiamo udire. Come i gatti sentono voci e suoni che l’orecchio umano non può percepire. Che cosa si dicano, che accordi abbiano preso durante questo lungo periodo, nessuno lo sa. Forse hanno fatto un patto, o si sono dati un appuntamento; forse anche a lei ha detto brusco vedi di non rompere le palle e non farti tanto desiderare, ché ho finito la pazienza. Sono giorni senza tempo. I minuti, le ore, scorrono lenti come le gocce che scendono dal boccione della flebo: una alla volta, scivolano nel tubicino e raggiungono le sue vene secche come rami di un albero morto, che eppure continua a stare in piedi. Perché gli alberi lo fanno: stanno su, sembrano in tutto e per tutto uguali agli altri, dritti, maestosi, con le braccia al cielo come solo un albero può essere. E invece dentro sono morti, un giorno crollano e tutti dicono guarda quell’albero, deve averlo abbattuto un fulmine, peccato era così rigoglioso. Ma non lo sanno, da quanto tempo la vita lo aveva abbandonato, lasciando che le foglie restassero verdi, i rami forti, il tronco dritto, le radici piantate nel terreno. Eppure era stava morendo.In pochi sapevano della malattia del mio babbo, lui se l’è portata dentro come un segreto, sapendo che si sarebbe impossessata del suo corpo di quercia ogni giorno sempre di più, un poco alla volta, una goccia alla volta, come la flebo che adesso scorre lenta a fianco al suo letto. Ha lottato per quasi sette anni, accettando le cure, sempre più pesanti, sempre più frequenti. Ha difeso la sua quotidianità come un leone stringe la preda fra gli artigli saldi: nessuno oserebbe tentare di strappargliela. E così è andato a cavallo, anzi abbiamo comprato un nuovo cavallo, Velluto, selezionato fra i tanti visti in giro per la Toscana. Babbo non prendiamo un puledro, sarà impegnativo, gli dissi quando decise di prendere proprio lui. Aveva gli occhi buoni, ma era magro, lui disse si farà, verrà un bel cavallo, a finirlo di domare ci penso io. Velluto adesso è un bellissimo maremmano di dieci anni, che presto regalerà le sue potenti galoppate a qualcun altro. Noi però ce le siamo godute, per i boschi di San Rossore.
Non lo voleva far sapere a nessuno, che gli avevano diagnosticato un cancro al fegato e al pancreas, figuriamoci se ho voglia di stare a sentire la gente che ti chiede con aria compatita come stai. Io il malato non lo farò mai. Sto benissimo e finché posso faccio la vita che mi pare. Vado a cavallo, vado in barca, mangio e bevo il cazzo che mi pare, fumo il sigaro e prendo il caffè corretto con la sambuca. Meglio un giorno da leone che cento da pecore, quando poi non sarò più buono a nulla vi saluto.
Le chemio andava a farle con lo scooter, le TAC con il contrasto pure. Con il culo ridotto a colabrodo dalla puntura di un ago grosso come un mignolo montava sulla sua bardella e andava in giro per San Rossore con Velluto. Poi al bar con gli amici a bere un bicchiere di vino bianco e sentire i racconti dei fantini sardi.
Il tumore si è mangiato le cose belle che si era messo in dispensa per la vecchiaia anche se era ancora lontana: le aveva scelte con cura, le passioni di una vita che aveva tutta l’intenzione di godersi fino in fondo. Una bella casa, i figli sistemati, un cavallo, una barca, una bella macchina, tanti amici, la politica vissuta attraverso le esperienze di Diego. Quando si dice non farsi mancare nulla. Tornava tutto. Non ci si fossero messe di mezzo quelle maledette macchie che l’ecografia aveva svelato senza possibilità di dubbio.
I primi anni sono stati più facili, un po’ di dimagrimento che la gente quando lo vedeva gli diceva Sem ti sei messo a dieta, bravo! Guarda come stai bene con qualche chilo in meno! Lui sorrideva tirando indietro la testa con il sigaro fra le dita e il bicchiere di vino davanti. La quercia, dritta, forte, con le fronde ampie, aveva iniziato il suo lento percorso verso la morte, ma gli altri non se ne accorgevano.
Che poi verso la morte ci andiamo tutti, non è che è diverso. Dal momento in cui nasciamo mettiamo un piede dietro l’altro sullo stesso filo, all’altro capo il finale è uguale per tutti. C’è chi lo trova prima, chi troppo presto, chi ci inciampa e nemmeno se ne accorge. Lui lo vedeva, quanto si fosse accorciato il suo filo, e lo sapeva che ogni giorno in più era uno in meno verso la fine. Ma tutti noi dovremmo saperlo questo, e forse tenerlo presente più spesso.
Vorrei dirgli tante cose, ma quando ci ho provato mi è venuto da piangere e io non piango mai o quasi. Gli ho detto babbo lo so che te non ne hai più voglia e che ti rompiamo tutti le palle ma noi lo facciamo perché ti vogliamo bene e vorremmo tenerti anche così. Sì ma io no, mi ha risposto. Aggiungendo senti se devi stare qui a piangere puoi anche andare giù. Ecco. Il solito Sem, che si spezza ma non si piega, chi nasce tondo non muore quadrato. E va bene, non piangiamo, che tanto non serve a nulla. Aspettiamo questa dama che sia in comodo, che si sia fatta bella, che indossi il suo abito più ricco; lo immagino di taftà nero, con lunghi veli e uno strascico, il volto bianco come la neve di Pian degli Ontani quando da bambini ci svegliavamo e il giardino si era sollevato, coperto di un manto candido che portava il silenzio e copriva la terra e metteva il cappello agli alberi secchi come stecchi che parevano morti. La immagino bella, e misericordiosa, che lo prenda per mano e con dolcezza lo porti con sé dove noi non possiamo andare, dove forse di nuovo potrà essere forte, e libero e ribelle come sempre è stato, prendendosi beffe di quelle macchioline che gli hanno mangiato la vita, a poco a poco, fino a divoralo da dentro, mentre le sue foglie da verdi si facevano gialle, molte cadendo, e i rami sempre più ossuti e il tronco, da fuori non si poteva vedere, cavo. Finché non è rimasto solo la corteccia, che fino all’ultimo tiene e lascia fuori tutto e tutti, nascondendo il vuoto che gli si è scavato dentro.
Non sappiamo quando arriverai, signora Morte, perché tanto farai quello che ti pare, e su questo almeno andrete d’accordo.
Una raccomandazione però te la voglio fare, spero solo che tu abbia il buon gusto di presentarti a cavallo, questo sì. Un bel cavallo morello, come piace a lui, con la criniera lunga e selvaggia, guai a pettinargliela; e la coda che sfiora la terra, che lui non gliela voleva mai tagliare la coda ai cavalli nemmeno quando gli si impigliava nei ferri. Arriva al passo, un passo lungo, che è l’andatura migliore per mettersi in viaggio, prendilo per mano e tiralo su in sella, e non ti scordare il bastone uncinato e il coltello, che lui senza non usciva mai: con quelli si aprono tutte le porte e i cancelli, perfino quelli del tuo regno, scommetto.
Poi, se proprio posso avanzare un’ulteriore richiesta, portalo in un bel posto, alla fine non è che gli occorra molto: bastano un cavallo, qualche buon libro, dei sigari e un bicchiere di vino, nero se possibile.
La signora si è presentata stamani, di buon’ora. E di mercoledì. Se sia arrivata a cavallo noi non lo possiamo sapere, ma certo trova babbo pronto, con il suo bel vestito da buttero, gli stivaletti e le ghette, il cappello, il coltello, il bastone e l’immancabile nappa rossa che porta sempre il cavallo, per tenere lontano il malocchio. Buon viaggio babbo».
I funerali si terranno oggi, giovedì 25 luglio 2019, alle ore 15.30 nel suo paese di origine, Pian degli Ontani, in provincia di Pistoia.