Bologna, 28 dicembre 2017 – Nella storia del salto ostacoli azzurro c’è una terra di mezzo. O per meglio dire, un tempo di mezzo: quello compreso tra la fine dell’era d’Inzeo/Mancinelli e l’inizio del futuro, un futuro che però rispetto a oggi è già passato. Trovare le date precise per delimitare questi segmenti temporali non è semplicissimo, bisogna andare con una certa approssimazione. Diciamo allora che l’era d’Inzeo/Mancinelli finisce nel 1977, con l’ultima vittoria in Coppa delle Nazioni a Piazza di Siena di una squadra che con l’aggiunta di Vittorio Orlandi è divenuta davvero leggendaria. In realtà tutti e quattro questi favolosi cavalieri – Piero, Raimondo, Graziano, Vittorio – avrebbero proseguito la loro carriera ancora di qualche anno, ma scendendo inevitabilmente la china del tramonto agonistico.
Per la Fise durante la seconda metà degli anni Settanta sembra accendersi improvvisamente una lampadina di allarme: dobbiamo pensare al futuro, dobbiamo sostituire i fratelli d’Inzeo e Graziano Mancinelli e Vittorio Orlandi, come facciamo? L’accusa per anni rivolta da destra e da sinistra ai nostri dirigenti di allora è stata quella di non aver preparato adeguatamente il terreno per il momento in cui fatalmente quei campioni formidabili avrebbero abbandonato – o anche solo rallentato – l’attività agonistica. Del resto non sarebbe stato semplice, dato che quei quattro garantivano vittorie a ritmo industriale: i due fratelli per tutto il trentennio ’50-’70, con l’innesto di Graziano Mancinelli a partire dall’inizio degli anni Sessanta e poi con l’aggiunta di Vittorio Orlandi alla fine degli anni Sessanta. Allora i concorsi erano pochi, quelli davvero importanti si contavano sulle dita di due mani (mettendoci dentro però anche i campionati internazionali… ) e quindi per i ragazzi risultava davvero difficile farsi largo: nessun presidente della Fise o c.t. azzurro avrebbe mai deliberatamente rinunciato a una potenza agonistica come quella garantita dai fratelli d’Inzeo, Mancinelli e Orlandi a favore di qualche ragazzetto inesperto, tenendo inoltre conto che le squadre olimpiche fino al 1972 erano composte da solo tre binomi e che le gare a squadre del Campionato del Mondo e del Campionato d’Europa hanno visto la luce rispettivamente solo nel 1978 e nel 1975. Gli spazi per crescere, insomma, erano davvero molto ristretti.
Ma quando per Piero e Raimondo d’Inzeo inizia l’inevitabile tramonto, quando Vittorio Orlandi non riesce più a trovare cavalli all’altezza delle sue potenzialità, e quando il solo Graziano Mancinelli manda di tanto in tanto qualche scintillante bagliore della sua immensa classe e bravura, diventa chiaro che i giovani sono indispensabili. Piero d’Inzeo è il più convinto sostenitore della cosiddetta ‘politica dei giovani’: lui stesso da c.t. azzurro fa esordire in Coppa delle Nazioni un gruppetto di speranze che si chiamano Uberto Lupinetti, Roberto Arioldi, Filippo Moyersoen… poi in qualità di comandante la Scuola Militare di Equitazione forma la squadra composta da Salvatore Oppes, Stefano Scaccabarozzi, Alessandro Galeazzi e Michele Della Casa, un quartetto compatto, omogeneo, allineato, ciecamente fiducioso negli insegnamenti del maestro. Nasce così l’era che per comodità d’intesa viene definita del ‘dopo d’Inzeo’. E sui cavalieri che la compongono viene scaricata una responsabilità pesantissima: mantenere la continuità dei risultati del ‘prima’, vincere come prima, conquistare medaglie e Coppe delle Nazioni e Gran Premi come prima… Un prima durante il quale era sembrato normale vedere l’Italia sul podio alle Olimpiadi, vedere l’Italia vincere in Coppa delle Nazioni a Roma e Aquisgrana e Londra e Parigi, vedere i cavalieri italiani con al collo le medaglie del Campionato del Mondo e d’Europa… perché non sarebbe potuto accadere anche dopo?
I ragazzi che compongono la generazione del ‘dopo d’Inzeo’, quelli sui quali pesa la responsabilità di vincere come si vinceva prima senza alcuna soluzione di continuità, formano un gruppo ristretto ma perfettamente individuabile: Uberto Lupinetti, Roberto Arioldi, Giorgio Nuti, Emilio Puricelli, Duccio Bartalucci, Filippo Moyersoen, Francesco Bussu, più i quattro ufficiali della Scuola Militare di Equitazione. Più altri che di volta in volta entrano ed escono da questa formazione allargata: ma il nucleo centrale è quello.
Non si vincerà più come prima. Ma non perché i ragazzi del dopo d’Inzeo non siano tecnicamente in grado di farlo: non si vincerà più come prima perché nel mondo del salto ostacoli internazionale cambia tutto, mentre in Italia non cambia niente. Ma rendersene conto per i contemporanei non è facile: così le responsabilità dei mancati successi vengono indirizzate sui cavalli e sui cavalieri, e non invece là dove risiedono effettivamente, cioè su di un sistema politico e sportivo ed economico che è rimasto fermo e pietrificato rispetto alla velocità con la quale si è trasformato quello europeo. Rendendo così forzosamente e semplicisticamente clamoroso il contrasto e la differenza con il recente passato, quello dei trionfi firmati d’Inzeo Mancinelli Orlandi. Il paradosso è che quei cavalieri, i cavalieri del dopo d’Inzeo, sono davvero cavalieri favolosi; e oggi, a distanza di anni, possiamo certamente dire che rappresentano un enorme capitale sprecato: alcuni di loro avrebbero meritato senza ombra di dubbio il vertice delle massime classifiche internazionali.
Sportivamente parlando non è stata quindi una vita facile, quella dei cavalieri dell’immediato dopo d’Inzeo. Tensioni, responsabilità, aspettative, frustrazioni: tutto sulle loro spalle… Spalle di veri uomini di cavalli, spalle di veri campioni, cavalieri formidabili ai quali però non è stata data la possibilità di inserirsi all’interno di un meccanismo funzionale alla loro valorizzazione. Un meccanismo che non esisteva semplicemente perché prima non se ne era mai sentita l’esigenza: per anni e anni e anni il salto ostacoli azzurro era andato avanti – vincendo a ripetizione – con i cavalli dello Stato e qualcuno di proprietà sotto le selle dei fratelli d’Inzeo, con quelli della macchina di commercio che aveva in Graziano Mancinelli il vertice massimo, con quelli che Vittorio Orlandi garantiva con le sue risorse personali. I cavalieri del dopo d’Inzeo quindi sono quelli a più diretto contatto con l’epoca dei trionfi e con il dovere di replicarli: chi verrà dopo di loro (i vari Dominici, Govoni, Chiaudani, Baroni, Smit, Bologni, Corno, Palmizi… etc etc) sarà più ‘distante’ da quel periodo storico, meno responsabilizzato sotto questo punto di vista, con alle spalle una generazione di uomini che pur essendo eccellenti cavalieri non avevano mantenuto il ritmo di vittorie dei quattro Grandi.
Ecco dunque la… terra di mezzo. Quella di chi è rimasto incastrato tra l’epoca d’oro dei trionfi mondiali e quella della sempre annunciata e mai avvenuta rinascita. Quella di chi ha dovuto sobbarcarsi un’eredità pesantissima senza avere i mezzi per poterla gestire al meglio. Cavalieri che sono andati in giro per i più importanti campi ostacoli del mondo presentati e considerati come gli eredi di Piero e Raimondo d’Inzeo e Graziano Mancinelli e Vittorio Orlandi, venendo… accusati a ogni mancato successo di non essere all’altezza delle aspettative riposte su di loro. Oggi possiamo chiedercelo con maggiore distacco e serenità di giudizio: ci rendiamo conto di che razza di ‘peso’ deve essere stato tutto questo?
Tali enormi difficoltà hanno tuttavia temprato l’animo e lo spirito di persone che da ragazzi si sono trasformati in uomini: forti, capaci, competenti. Uomini di cavalli, cavalieri meravigliosi, persone di sapienza e di esperienza. Gente che sa le cose. Che le ha vissute. Che le ha attraversate: soffrendo, spesso. Ed è proprio dal gruppo che compone la… terra di mezzo che per nulla casualmente provengono le persone alle quali il salto ostacoli azzurro si è affidato nel corso degli ultimi anni: Uberto Lupinetti, Emilio Puricelli, Roberto Arioldi, Stefano Scaccabarozzi, Duccio Bartalucci, Giorgio Nuti. Sempre loro, sempre i nostri grandi protagonisti del dopo d’Inzeo. Non avranno vinto Olimpiadi e Campionati del Mondo e d’Europa, ma rappresentano più di chiunque altro la vita del nostro sport: dentro ciascuno di loro c’è la consapevolezza di cosa abbia voluto dire il prima e di cosa deve dire il dopo; dentro di loro c’è l’esperienza di essere stati allievi e compagni di squadra dei nostri Grandi, e contemporaneamente interlocutori attuali e presenti dei vari Piergiorgio Bucci, Lorenzo de Luca, Alberto Zorzi, Emilio Bicocchi, Emanuele Gaudiano, Bruno Chimirri etc etc. Una volta erano loro i giovani: oggi, pur non essendo ancora ‘vecchi’, sono gli uomini ai quali i ragazzi devono guardare per capire le cose.