Bologna, 19 ottobre 2016 – Posto giusto, posto sbagliato, momento giusto, momento sbagliato. La combinazione di questi… elementi può determinare una serie di variabili piuttosto diversificate. Soprattutto se tali elementi li disponiamo sul tavolo di un lungo momento storico e li spostiamo come elementi di una scacchiera. Niente di nuovo, si dirà: ovvio. Però la grande vittoria di Alberto Zorzi a Oslo nel Gran Premio di Coppa del Mondo domenica 16 ottobre fa venire in mente una considerazione in modo quasi automatico. La considerazione di un dato di fatto, completamente depurato da qualsiasi accessorio ideologico o politico. E’ una considerazione di quel tipo che si possono fare quando si è vissuto in un mondo – o meglio: dentro un mondo – così a lungo da poter fare confronti e comparazioni tra vari periodi, tra varie situazioni, vari personaggi eccetera eccetera. Veniamo quindi al sodo. La considerazione è questa. Non molti anni fa, diciamo in un lungo periodo a cavallo tra gli Ottanta e poi buona parte dei Novanta fino alle propaggini dei Duemila, i cavalieri italiani mediamente non riuscivano a emergere a livello internazionale se non con qualche individualità e sporadicamente. Nulla di sistematico, cioè. Il confronto con le epoche gloriose, e a quei tempi non ancora troppo distanti, era abbastanza impietoso e il dibattito piuttosto acceso. Una larga fascia di opinione pubblica individuava proprio nei cavalieri i principali responsabili di quel grigiore tendente al nero che stava caratterizzando quel lungo periodo. La tesi prevalente era questa: la vera equitazione si fa nel nord Europa ma i migliori cavalieri italiani preferiscono rimanere a casetta loro per guadagnare i soldi dei montepremi nazionali; a maggior ragione considerando il fatto che allora c’era la politica del cosiddetto protezionismo nei confronti del cavallo italiano (nel senso di nato e allevato in Italia, cioè) con tutto il meccanismo dei montepremi dedicati, dei contributi, delle gare chiuse, dei circuiti riservati e via discorrendo. C’erano molti cavalieri che in effetti gestivano la loro carriera impostandola sui guadagni derivanti dai premi riservati ai cavalli indigeni, cavalli che nella maggioranza dei casi non sarebbero mai emersi ad alto livello sia nazionale sia internazionale ma che servivano ottimamente a far cassa. Secondo una certa opinione pubblica molto critica, quindi, il cavaliere italiano medio veniva raffigurato come opportunista, pavido, provinciale e gretto d’animo. E per questo incapace di affermarsi agonisticamente ad alto livello internazionale: molto più per questo che per eventuale incapacità tecnica, che su tale fronte non si è mai messo nulla in discussione. In sostanza queste erano le accuse: non volete andare all’estero per vivere un vero confronto internazionale, preferite i soldi allo sport, non vi interessa migliorare visto e considerato che con poca fatica e nessun sacrificio potete tranquillamente spadroneggiare in Italia. Questa visione talvolta considerava anche realtà dichiarate di cavalieri italiani che effettivamente avevano ricevuto proposte di lavoro da parte di commercianti o proprietari o allevatori stranieri, e che erano state rifiutate proprio per mancanza di audacia, di temerarietà, di forza d’animo… ma come faccio, ho i miei clienti, i cavalli di mio padre, la scuderia dei miei genitori, non posso, non so l’inglese, mi piacerebbe tanto ma… Tanto per fare un esempio, uno che invece si è sempre tenuto lontano mille miglia da ragionamenti simili è stato Guido Dominici, che da giovanissimo ha preso armi e bagagli e si è trasferito da Nelson Pessoa con il quale è rimasto per un tempo molto lungo (pensate: per un certo periodo Guido Dominici è stato anche responsabile tecnico degli juniores belgi… !!!); uno che invece ha sempre candidamente dichiarato il proprio rimpianto in tal senso è Giorgio Nuti, che da uomo e cavaliere maturo ha sempre sostenuto che se fosse potuto tornare indietro avrebbe immediatamente colto le molte palle al balzo che gli si erano presentate di volta in volta. Oltre a tutto ciò, poi, in quegli anni la Fise era bersagliata da critiche piuttosto feroci: non fate niente per mettere i cavalieri italiani nella possibilità di trasferirsi all’estero, non create le condizioni per il loro miglioramento, la vostra politica continuerà a farci rimanere il fanalino di coda del mondo che conta… etc etc. Chi in quell’epoca era acerrimo nemico della Fise (ci sono sempre stati gli acerrimi nemici della Fise… con qualunque presidente, in qualsiasi epoca, con qualunque consiglio federale) strumentalizzava la mancanza di trasferimenti di cavalieri italiani all’estero proprio come elemento per dimostrare l’arretratezza, l’incompetenza, l’immobilismo della nostra federazione. Mettendo inoltre a confronto la nostra realtà provincialotta, campanilistica e mammona con quella di molti grandi campioni stranieri che tali sono diventati anche grazie all’opportunità di essersi trasferiti all’estero: il… padre di tutti gli ‘emigranti’ individuato in Nelson Pessoa, ma poi anche Eddie Macken, Franke Sloothaak… e una notevole serie di altri grandi nomi che per affermarsi hanno dovuto lasciare mamma casetta per andarsene a fare la gavetta (e i box… ) altrove. Quando poi è nato il fenomeno esemplificato da Jerry Smit – cioè: cavaliere italiano bravo sostenuto da un proprietario di notevoli mezzi e quindi montato su cavalli di eccellente qualità trasferitosi all’estero nella scuderia di un tecnico e commerciante capace e affermato – il concetto si è rafforzato: Smit vince non solo perché è bravo, non solo perché ha buoni cavalli, ma anche perché sta lì, in mezzo ai grandi campioni, ai grandi concorsi, alla routine di alto livello, perché respira quell’aria e vive dentro quell’atmosfera. La dimostrazione quindi che per affermarsi oltre alle risorse bisogna anche godere di una logistica adeguata.
Se la critica nei confronti dei cavalieri italiani di allora era abbastanza impietosa e anche ingenerosa, è tuttavia vero che a partire da una certa epoca in poi – quella nella quale si è affermato il professionismo ad alto livello internazionale – è stato se non indispensabile di certo molto importante vivere l’equitazione là dove l’equitazione vive. Per qualunque cavaliere o uomo di cavalli che facesse parte della periferia. E i cavalieri italiani venivano accusati spietatamente di sottrarsi a questo confronto, di eludere quello che veniva visto quasi come il loro ‘obbligo’ professionale e sportivo. Noi stessi ci auto-accusavamo di essere inferiori perché non andavamo a fare lo sport e a imparare a fare lo sport là dove lo sport si faceva al massimo livello. Chi sosteneva che in Italia non ci mancava in realtà nulla per creare le condizioni ideali utili ai nostri cavalieri per emergere e affermarsi veniva visto dalla critica più radicalizzata come un reazionario antiquato e retrogrado: il progresso e il futuro e la modernità stavano lì, in Olanda, in Belgio, in Germania… e perfino la Francia e la Scandinavia e la Gran Bretagna venivano considerate periferia… Era proprio un’atmosfera che in Italia si percepiva quasi fisicamente e materialmente: chi si dimostrava insofferente a questa logica dell’estero a tutti i costi era bollato come appartenente al mondo polveroso e superato e obsoleto (secondo alcuni addirittura patetico) della vecchia equitazione italiana fatta di cavalleria, uniformi, coppe e coccarde, moine e riverenze… mentre invece la modernità era il professionismo, il denaro, la sostanza, la velocità, il disprezzo per i formalismi arcaici e desueti, e per l’appunto l’estero, soprattutto Olanda, un Paese che nel mondo dello sport e dell’allevamento del cavallo sportivo era riuscito ad affermarsi ad altissimo livello partendo quasi dal nulla e semplicemente decidendo di farlo, dando quindi massima dimostrazione di cosa sia possibile realizzare impostando l’organizzazione dello sport equestre né più né meno come quella di qualunque altro sport ad alto livello, mentre da noi i ‘vecchi’ ancora andavano vagheggiando dell’equitazione come arte, come cavalleria, come buone maniere, come disprezzo del denaro ed esaltazione del valore della coppa e della coccarda…
Ecco, tutto questo accadeva non molto tempo fa. Faceva parte della vita quotidiana di chi – uomo o donna di cavalli dalla nascita – oggi ha almeno cinquant’anni. Posto giusto, posto sbagliato, momento giusto, momento sbagliato… Sì, perché oggi invece abbiamo finalmente un gruppo di cavalieri bravissimi che sta facendo esattamente quello che il mondo dell’equitazione italiana auspicava come rivoluzione epocale durante il periodo di cui si è detto, tra l’altro dimostrando che effettivamente la vita e l’organizzazione sportiva in quelle zone dell’Europa ‘dei cavalli’ producono risultati di eccellenza: Alberto Zorzi, Emanuele Gaudiano, Piergiorgio Bucci, Lorenzo de Luca, Michael Cristofoletti, Roberto Cristofoletti, Antonio Alfonso… tutti loro stanno sfornando prestazioni e risultati in serie e non più come situazioni episodiche ed estemporanee (e poi non sono i soli: loro sono solo quelli di maggior evidenza agonistica, ma ci sono altri cavalieri italiani che vivono e montano lontano dall’Italia: Emanuele Camilli, Edmondo Carbone… e poi in completo Vittoria Panizzon e Stella Benatti, solo per dirne alcuni), eppure la loro permanenza fuori dall’Italia viene oggi vista da alcuni non come un’opportunità di arricchimento e di nobilitazione del nostro sport equestre (di cui quei cavalieri sono indubbiamente espressione), bensì come una costrizione da loro subita a causa di una società che li avrebbe costretti alla fuga ormai diversi anni or sono… Opinioni ovviamente legittime e rispettabilissime, questo è fuori discussione: però è curioso notare come solo poco tempo fa la famiglia dello sport equestre italiano stigmatizzasse come difetto e vizio alla base dei nostri insuccessi il fatto che nessuno dei cavalieri azzurri si trasferisse all’estero, mentre ora la permanenza all’estero dei nostri cavalieri venga vista come fuga da qualcosa che non lascia loro più alcuna possibilità alternativa. Prima i nostri non se ne andavano ed erano colpevoli di inettitudine e pusillanimità; adesso i nostri sono andati ma sarebbero vittime di un mondo che li ha espulsi… Alla fin fine la questione sembra essere tutta qui: posto giusto, posto sbagliato, momento giusto, momento sbagliato… (per fortuna però i risultati sportivi finalmente ci sono: ed è questo quello che più conta).