Bologna, 27 marzo 2018 – La notizia della vendita di Ares da parte di Emilio Bicocchi ha fatto molto discutere gli appassionati di sport equestri. Come è normale che sia, dato che il cavaliere azzurro e il suo cavallo formavano uno dei binomi più forti e consolidati del nostro salto ostacoli. E che se ne sia discusso non è solo normale, ma anche giusto: è vero che Ares era solo e soltanto di Emilio Bicocchi, ma è anche vero che il valore del binomio apparteneva al mondo del nostro sport, quindi alla collettività.
È evidente che la vendita di un cavallo rappresenta molto più della semplice alienazione di un bene, per dirla in gergo giuridico/commerciale. Partiamo subito dall’aspetto per così dire sentimentale: ai cavalli ci si affeziona, ai cavalli si vuole bene, ma un cavaliere professionista non può farsi condizionare dai sentimenti. Chi contesta o non condivide o semplicemente non capisce questa dimensione del rapporto uomo/cavallo dovrebbe chiedersi per esempio perché gli allevatori vendono i cavalli… Persone che i puledri li fanno nascere con le proprie mani, che li vedono crescere ora per ora e giorno per giorno, che li aiutano e li seguono proprio come una mamma o un padre farebbe con i propri figli, che li amano con la passione che si può provare solo nei confronti di ‘qualcosa’ che si aiuta a venire al mondo… eppure li vendono. Perché? Risposta scontata: perché se un allevatore non vendesse i cavalli che alleva smetterebbe di fare l’allevatore. Ovvio.
In un certo senso anche per il cavaliere professionista vale lo stesso ragionamento. Se un giorno si presenta qualcuno che per il nostro cavallo ci offre alcuni milioni di euro, e noi di quella vita viviamo, con quel lavoro campiamo, con quei soldi sosteniamo l’organizzazione della vita familiare e professionale… cosa facciamo? Ci pensiamo sopra con attenzione, ovvio, ma poi? Possiamo certamente rifiutare l’offerta, se alcuni milioni di euro in più o in meno non ci fanno differenza… ma per quanti di noi alcuni milioni di euro in più o in meno non fanno differenza? Parliamo di professionismo: chiunque voglia riflettere sulla questione pensi prima al proprio lavoro, al rapporto tra il denaro e il proprio lavoro, e tra il proprio lavoro e la propria vita. E poi rifletta.
Superato l’argomento per così dire sentimentale, veniamo ora a quello più propriamente sportivo. Sappiamo tutti benissimo che perfino il miglior cavaliere del mondo senza un cavallo è solo un uomo a piedi. La differenza quindi la fanno i cavalli, ovviamente. Ed è una differenza significativa non solo per il singolo cavaliere, ma anche per un’intera federazione: avere o non avere cavalli importanti sotto la sella dei propri cavalieri determina l’andamento di una stagione, condiziona la programmazione sportiva e di conseguenza l’ottenimento degli obiettivi agonistici. Ma le federazioni possono fare qualcosa per impedire che un soggetto privato (cavaliere o proprietario/sponsor di un cavaliere) venda il proprio miglior cavallo nel caso di un’offerta milionaria? La risposta è molto semplice: no. Guardiamo alcuni casi più o meno recenti: lo spagnolo Sergio Alvarez Moya ha venduto Arrayan; la tedesca Meredith Michaels Beerbaum ha venduto Fibonacci; la svizzera Janika Sprunger ha venduto Aris (per non parlare di Palloubet d’Along in precedenza); il francese Julien Gonin ha venduto Soleil de Cornu; il belga Jerome Guery ha venduto Grand Cru van de Rozenberg; la greca Athina Onassis ha venduto Cornetto; il francese Roger-Yves Bost ha… venduto (i suoi proprietari, cioè) Sydney Une Prince; lo svedese Henrik con Eckermann ha perduto Chacanno; l’olandese Ruben Romp ha venduto Teavanta… e la lista potrebbe continuare. Tutti – o quasi – cavalli numero uno di quei cavalieri al momento della cessione.
In Italia il problema è sempre stato molto sentito, soprattutto perché i nostri cavalieri solitamente hanno scuderie meno fornite di quelle dei loro colleghi stranieri (lasciamo perdere per il momento il caso di Alberto Zorzi e Lorenzo de Luca perché da questo punto di vista loro stanno vivendo una realtà completamente diversa). Cioè, tanto per rimanere al caso di attualità, Emilio Bicocchi in questo momento non dispone di un altro Ares in scuderia: mentre molti dei cavalieri stranieri che vendono in genere un’alternativa anche a medio termine ce l’hanno. Da noi in Italia ogni qualvolta un cavaliere o un proprietario ha venduto un cavallo importante si è sollevata la critica dell’opinione pubblica nei confronti della Fise: non di ‘questa’ Fise, di qualunque Fise. Ricordate per esempio il caso di Seldana, con alla guida della Fise Andrea Paulgross? Si scatenò il finimondo. O quando Andrea Conti vendette Ninja? Però esiste anche una spiegazione storica, diciamo, al motivo per cui noi siamo tendenzialmente portati a ritenere che l’istituzione debba in qualche modo farsi garante della ‘conservazione’ dei cavalli importanti in casa. E per capire questa questione di mentalità dobbiamo risalire addirittura al periodo precedente la seconda guerra mondiale. Perché dalla nascita dell’equitazione caprilliana fino appunto ai primi anni Quaranta del secolo scorso i cavalli impegnati agonisticamente ad alto livello erano tutti di proprietà militare, e dunque dello Stato: tutti. La realtà di fatto era questa. Superata la guerra l’organizzazione militare è stata lentamente smontata e i cavalli importanti sono diventati quelli privati: ma la Fise sostenuta dal Coni ha sempre provveduto a ingenti acquisti (le cosiddette rimonte) in previsione delle Olimpiadi e delle competizioni più importanti, sulla scorta di quanto era rappresentato dalla realtà militare prima della guerra. Mentre due organizzazioni militari potenti come quelle dell’Esercito e dell’Arma dei Carabinieri hanno pur sempre continuato a rifornire di cavalli di valore alcuni propri cavalieri in divisa. Quindi la mentalità secondo la quale era la Fise (tramite i denari del Coni) a dover rifornire le squadre con cavalli propri è sempre stata quella prevalente e portante. L’ultimo segnale di ciò lo si è avuto fino alla metà degli anni Ottanta, sotto la presidenza Fise di Lino Sordelli, con la famigerata scuderia federale. Cosa era la scuderia federale? Un gruppo di cavalli di qualità medio/alta di proprietà Fise/Coni che venivano assegnati a cavalieri importanti – Giorgio Nuti, Filippo Moyersoen etc etc… – sprovvisti di un soggetto all’altezza; cavalli che poi sono serviti – e molto bene! – per la crescita e la maturazione di diversi giovani divenuti in seguito formidabili cavalieri (Gianni Govoni, Giuseppe Corno, Massimiliano Baroni, Gianluca Palmizi, Mauro Atzeri, solo per dirne alcuni). Ma tra il 1984 e il 1988 si è scatenata la guerra contro la scuderia federale: perché i privati si sentivano messi in una condizione di svantaggio forzato. Si diceva: la situazione è profondamente iniqua, ovvio che la Fise manderà avanti sempre più i propri cavalli a scapito di quelli privati, i quali però sono gestiti e mantenuti a prezzo di notevoli sacrifici personali senza poter contare sull’apporto di alcun sostegno pubblico. Quindi Lino Sordelli perse le elezioni da presidente Fise per il quadriennio olimpico 1989-1992 non solo per questa ragione, ma soprattutto per questa ragione: il gruppo che sosteneva Mauro Checcoli (formato dai grandi nomi dal salto ostacoli e del completo azzurri, Graziano Mancinelli in testa) aveva fatto del “cancelliamo la scuderia federale, largo all’iniziativa privata” il cavallo di battaglia della campagna elettorale poi dimostratosi vincente. La gente dell’equitazione italiana non voleva più che la Fise c’entrasse con la proprietà, il possesso, la gestione, l’amministrazione dei cavalli sportivi. La Fise offra servizi, si diceva, ai cavalli pensino solo ed esclusivamente i privati.
Ovviamente la Fise ha smesso di possedere cavalli in forma sistematica: ma il caso di qualche altro soggetto acquistato con contributi federali in seguito c’è stato, sia in salto ostacoli sia in completo, con annesso bel carico di polemiche e di problemi vari… Ma il concetto di scuderia federale è definitivamente tramontato allora.
In realtà poi con l’andare degli anni quella stessa parte di opinione pubblica contrarissima all’ingerenza della Fise nella gestione dei cavalli ha cominciato invece a manifestare il proprio disappunto nel prendere atto che in caso di vendita di qualche soggetto importante da parte del suo proprietario la federazione non interveniva in alcun modo… Ma come, il signor Rossi vende il miglior cavallo della squadra italiana e la Fise non fa nulla? La Fise non interviene? È uno scandalo… ! Beh, noi siamo campioni nella strumentalizzazione delle varie circostanze a seconda dell’interesse prevalente, dobbiamo riconoscerlo. Ma un dato di fatto è di chiarezza solare: il valore economico dei cavalli è lievitato talmente tanto nel corso degli ultimi decenni che certamente non c’è strumento possibile per la federazione di qualunque Paese al mondo per poter dissuadere un privato dal vendere: né economico né sportivo. Nessuno.
Infatti l’unico sistema dimostratosi effettivamente utile – pur se parzialmente – per proteggere cavalli importanti dalle mire di acquisto di voraci miliardari è stato in Olanda quello del consorzio. Un gruppo anche vasto di persone che hanno acquistato una quota di un cavallo con scadenza all’obiettivo prefissato, Olimpiadi o Campionato del Mondo o d’Europa che fosse. Con l’augurabile speranza di veder incrementato il valore del cavallo e quindi considerando quell’acquisto come una sorta di investimento. Razionalmente parlando – a oggi – è questo l’unico strumento possibile per… vincolare un cavallo a un cavaliere e quindi a un obiettivo. Perché qualunque forma di contributo che per le casse di una federazione sia possibile è assolutamente ridicolo agli occhi di un privato che riceve una proposta: se esistono potenziali offerte di cinque, dieci o perfino dodici milioni di euro cosa volete che sia mai anche un pur impegnativo contributo federale di qualche centinaia di migliaia di euro? Pur con tutti i discorsi veri e importanti e nobili e alti su sport, bandiera, appartenenza, attaccamento etc etc… voi tra (esempio) 500 mila euro e cinque milioni di euro cosa fareste? Cioè: cosa fareste… davvero?
Nessun cavaliere vende a cuor leggero il proprio miglior cavallo. Nessuno. Soprattutto quando quel cavallo è l’unico miglior cavallo. Significa rinunciare a obiettivi importanti, oltre che separarsi da un compagno con il quale aver instaurato un rapporto non solo tecnico ma anche sentimentale ed emotivo. In alcuni casi molto forte. Ma vendere spesso significa poter andare avanti: significa poter investire in altri cavalli, soprattutto. Quindi il punto è che bisognerebbe evitare – nell’ottica di una istituzione sportiva pubblica – che il cavaliere o proprietario/sponsor possa arrivare al punto di decidere se vendere o meno: se il cavaliere o il proprietario/sponsor ha questa libertà (che ovviamente nel caso del proprietario è un diritto), al momento buono venderà, non c’è alcun dubbio. Oggi più che mai. Non c’è obiettivo sportivo o bandiera che tenga.