Bologna, venerdì 6 novembre 2020 – Premesso che nel nostro sport il rapporto con il cavallo e le emozioni che ne derivano sono certamente gli elementi più importanti, quelli che rappresentano le fondamenta su cui poi costruire il resto… premesso tutto ciò, è comunque vero che pur sempre di sport si tratta. Agonismo, cioè. Gara. Confronto. Avversari. Classifiche. E dunque vittorie e anche non-vittorie, oltre che sconfitte in senso proprio… Uno sport in cui si perde molto più di quanto si vinca: questo è un dato di fatto incontestabile. Eppure c’è un cavaliere che sta facendo del suo meglio – e non certo solo da oggi… – per cercare di portare quanto meno in pareggio le percentuali delle due eventualità… Non è difficile immaginare di chi si sta parlando: Emanuele Gaudiano, ovvio! Un cavaliere che difficilmente rientra a casa da un concorso senza aver vinto come minimo (minimo… ) una gara. E calcolando che Emanuele Gaudiano è in concorso tutti i fine settimana, Covid permettendo… beh, si fa presto a immaginare quale possa essere il suo rapporto con la dea alata…
Partiamo con la domanda più banale e scontata possibile: cosa significa per lei vincere?
«Tutti gli atleti di qualunque sport vanno in gara per vincere, o quanto meno per provare a farlo… Io lo faccio da molti anni ormai e alla fine è diventata quasi una routine quella di andare in gara e tentare di vincere almeno una categoria a concorso».
Quando vince cosa sente, cosa pensa?
«Penso che è stato fatto un buon lavoro non solo da me e dai miei cavalli, ma anche da tutto il mio team».
E quindi per avere la conferma della qualità di questo lavoro c’è bisogno della vittoria? Oppure non è detto che si debba per forza vincere per avere tale conferma?
«Dipende dalle gare. Chiaramente in un internazionale a due stelle, o in un concorso nazionale, le gare piccole sono di lavoro, non vado lì per vincere la 130… In un concorso di più alto livello invece ci provo sempre… ».
Però la conferma della qualità del lavoro ci può essere anche in assenza della vittoria… no?
«Eh… a me piace vincere!».
Parliamo di concorsi di livello medio alto. Lei fa un piano prima di iniziare, cioè individua già la gara che potrebbe provare a vincere montando il tal cavallo e costruendo quindi il programma in funzione di quell’obiettivo?
«Ormai è tutto programmato, anche se adesso in tempo di pandemia è difficile farlo. In situazioni normali io il programma su ciascun concorso lo faccio almeno tre settimane prima di arrivarci, scegliendo le gare che farà ciascun cavallo. Poi è ovvio che i programmi possono variare a seconda delle situazioni contingenti e in caso di imprevisti, o di cali di forma, ma di norma è così».
Quindi sceglie le gare e sa già sulla carta che la gara X la farà puntando a vincere, che la gara Y le servirà da preparazione in vista della gara Z più importante…
«Sì, assolutamente. E con un margine di due o tre settimane. Di solito guardo tutti i programmi, prendo un foglio e faccio l’elenco delle gare a tempo, delle gare a fasi, delle gare a barrage, poi decido quale cavallo montare in ciascuna».
E invece che sensazioni le dà la… non vittoria?
«Dipende… Se un cavallo di 7 anni in una gara grossa fa un errore saltando molto bene, beh… per me è come vincere».
Ma quando qualcuno le toglie il primo posto in una gara che sembrava già vinta… ?
«Vincere è sempre bellissimo, ma ad esempio io di recente sono arrivato al 2° posto in un Gran Premio a cinque stelle a Grimaud con Chalou e la mia gioia è stata pari a quella che avrei provato se avessi vinto, anche considerando come ha saltato il mio cavallo. Credo che per tutti i cavalieri sia così: essere nei primi posti di un GP a cinque stelle con i cavalli che saltano bene è la cosa più importante… poi essere terzo, quarto o secondo poco cambia. Certo, se si vince è perfino meglio… !».
Quindi diciamo che in lei prevale l’apprezzamento della prestazione del cavallo più che il risultato in termini di classifica?
«Sì, direi di sì… Però facendo anche qui delle eccezioni… È chiaro che se sono con Carlotta in campo e mi tocca l’ultimo, beh… là mi girano un po’ le scatole, diciamo… ».
Il rapporto che lei ha con i suoi cavalli è influenzato dalla quantità e dalla qualità dei risultati che ottiene con loro?
«No, non direi. O meglio, forse dalla quantità sì, nel senso che se con un cavallo si ottengono molti risultati vuol dire che con lui si sono fatte molte gare, e facendo molte gare si stabilisce un rapporto più profondo e completo. Ma da questo punto di vista i risultati non incidono più di tanto. Per esempio Kingston è un cavallo un po’ discontinuo che alterna il livello delle sue gare, può fare delle prestazioni magnifiche oppure può fare un po’… il monello, diciamo. Però è uno dei miei cavalli favoriti».
Succede molto raramente… ma quando torna a casa da un concorso senza aver vinto nemmeno una gara cosa pensa?
«Niente: mi carico per la settimana dopo. Si vince e si perde, è normale: non bisogna mai abbattersi. Del resto non si può vincere sempre: tutti vanno in gara per vincere o almeno per piazzarsi, quindi… ».
Ma lei è ovviamente ben consapevole di essere tra i cavalieri che in Europa realizzano la più alta percentuale di vittorie…
«Sicuramente non come Julien Epaillard! Lui è un cavaliere che davvero ama vincere, gli piace molto… ».
Ha mai fatto il conto di quante gare ha vinto nella sua carriera?
«No, mai… So però che Carlotta ha vinto nella sua carriera circa ottantadue, ottantatré gare internazionali fino a oggi».
Carlotta è uno dei cavalli con i quali lei vinto di più, no?
«Sì, ma va cambiato il modo di porre la questione… Il punto è che Carlotta è in assoluto uno dei cavalli del circuito internazionale che ha vinto di più».
Quando si è reso conto che lei sarebbe diventata una vincitrice così forte?
«Il primo concorso Carlotta l’ha fatto a 5 anni a Samorin, due settimane di concorso: ha vinto quattro gare su sei… ».
Tutto chiaro fin dal principio…
«Eh sì… Chiarissimo!».