Bologna, giovedì 22 dicembre 2022 – Lunedì 1 agosto 2022 ha raggiunto il vertice della computer list mondiale dei cavalieri di salto ostacoli scalzando lo svizzero Martin Fuchs: numero uno. Venerdì 12 agosto 2022 a Herning ha conquistato il titolo di campione del mondo a squadre. Domenica 14 agosto 2022 sempre a Herning ha conquistato il titolo di campione del mondo individuale. Venerdì 9 dicembre 2022 a Ginevra ha vinto la finale mondiale Top 10 Rolex/Ijrc. Il tutto dopo aver vinto un anno prima – il 7 agosto 2021 – la medaglia d’oro a squadre alle Olimpiadi di Tokyo ed essersi classificato al 4° posto individuale… E sempre in sella a King Edward. Henrik von Eckermann, nato il 25 maggio 1981, svedese, di professione cavaliere, non dimenticherà tanto facilmente questi dodici mesi!
In molti alla vigilia del Campionato del Mondo di Herning la davano come primo favorito per la vittoria finale: ne era consapevole?
«Sì, è vero. Credo sia dipeso dal fatto che King Edward stava collezionando una serie di prestazioni davvero eccellenti, moltissimi percorsi netti, pochissimi errori. Quindi si è messo in bella evidenza!».
Ma questa consapevolezza ha aumentato la pressione su di lei, o invece è stata uno stimolo positivo?
«Non ci ho pensato troppo, in realtà. Io vado a ogni concorso e a ogni campionato con la voglia di vincere, ma allo stesso tempo so benissimo che basta un’inezia per far andare le cose diversamente da come si desidera. Basta solo una barriera che cade e cambia tutto… Quindi ho cercato di concentrarmi al meglio sapendo che se avessi montato bene avremmo avuto buone possibilità di successo, perché King Edward era davvero in una forma fantastica. Sono arrivato a Herning con grande fiducia».
Medaglia alle Olimpiadi, medaglia – anzi medaglie – nel Campionato del Mondo… Sensazioni diverse?
«Beh, diciamo che le Olimpiadi sono sempre le Olimpiadi… È però vero che a Tokyo a causa del Covid non c’era pubblico, quindi non c’era proprio atmosfera. In ogni caso abbiamo conquistato la medaglia d’oro in un modo favoloso, con tutti tre i nostri cavalli che avevano fatto anche la finale individuale e che quindi avevano nelle gambe percorsi in più rispetto per esempio agli Stati Uniti con cui abbiamo disputato il barrage e che non avevano avuto nemmeno un cavallo nella finale individuale, e però hanno saltato come se niente fosse. A Tokyo c’è stata più tensione perché con il nuovo formato a tre binomi per squadra, e quindi senza la possibilità di scartare il risultato peggiore, sapevamo di non poterci permettere nemmeno il benché minimo errore».
A Herning invece avevate uno spirito diverso?
«Sapevamo di avere quattro binomi davvero molto forti: quindi uno di noi avrebbe potuto avere una giornata anche negativa senza per questo precludere la possibilità di successo alla squadra. Di certo io non ero nervoso come a Tokyo… Tra l’altro a Tokyo il nostro risultato è dipeso anche da quello di altre squadre, mentre a Herning volevamo andare in testa fin dal primo giorno in modo da non dover dipendere dai risultati altrui e poterci concentrare solo sul non fare errori. E così è stato. Poi a Herning l’atmosfera era fantastica con tutto quel pubblico svedese!».
A Herning la vostra formazione era identica a quella di Tokyo, con l’aggiunta di Jens Fredricson… quindi Peder Fredricson, Malin Baryard, Rolf-Goran Bengtsson e lei. Come sono i rapporti tra tutti voi?
«Abbiamo rapporti molto stretti tra tutti noi, ci conosciamo tutti da un sacco di tempo. Quando ero molto giovane ho montato con Peder Fredricson, sono stato tanto tempo con lui e anche con suo fratello maggiore Jens, uno dei miei primi istruttori. Poi abitavo molto vicino a Malin Baryard, mentre Rolf-Goran Bengtsson l’ho conosciuto quando mi sono spostato in Germania e lui era già lì. Anche con il nostro chef d’équipe Henrik Ankarcrona il rapporto è molto stretto. Credo che uno dei motivi del nostro successo come squadra sia proprio la qualità del rapporto che c’è tra noi».
Che significato ha per lei essere il numero uno della computer list mondiale oltre che il campione del mondo?
«Essere il numero uno della computer list è una cosa che ho sempre sognato, una meta che mi ero prefissato. Ma sappiamo bene quanto sia difficile arrivare lassù… In ogni caso esserci arrivato per me vuol dire soprattutto la certezza di aver fatto bene qualcosa. Essere campione del mondo lo stesso. Per arrivare a quel risultato ci sono tanti passi che devono essere compiuti nel corso del tempo, e non sempre si sa se si sta facendo la cosa migliore: ottenere risultati importanti è la conferma di aver fatto le scelte giuste e aver portato a termine bene un lavoro. Questa è la cosa più importante».
Cosa direbbe se dovesse descrivere sé stesso come cavaliere? Essere campione del mondo e numero uno significa che non ci sono più margini di miglioramento?
«No no, figuriamoci… ! Nello sport si può e si deve sempre migliorare, sempre, in tutto, non bisogna mai smettere di applicarsi e di impegnarsi per migliorare. Nel nostro caso poi non c’è solo il montare a cavallo in gara, ma anche tutto quello che gira intorno, la gestione della scuderia, il lavoro dei cavalli a casa… Bisogna essere sempre di mente aperta, cercare di vedere qualunque cosa possa essere utile per il bene dei nostri cavalli. Quanto alle mie qualità… mah, direi che sono un cavaliere flessibile, cerco di adattare me stesso a qualunque cavallo senza pregiudizi. Poi credo di avere una buona predisposizione verso il lavoro: mi piace lavorare, se anche le cose vanno male per me lunedì si ricomincia per cercare di farle andare meglio».
Come e quando è nata la sua passione per i cavalli e per lo sport equestre?
«Da piccolo ho fatto molti sport… hockey, tennis, calcio, ma non ero bravo abbastanza in nessuno di questi. Io sono nato in una fattoria e ho sempre avuto animali intorno a me: mia mamma aveva due cavalli con i quali andava in passeggiata e io qualche volta la accompagnavo… poi con i miei genitori andavo sempre a vedere i concorsi di Coppa del Mondo, e così pian piano ho cominciato a interessarmi all’equitazione. Ho cominciato a montare a circa 12 o 13 anni, andando ai campi estivi con la scuola. Ma da juniores non ho fatto niente di particolare: i miei primi impegni importanti sono stati i Campionati d’Europa da young rider».
Quando ha capito che quella con i cavalli sarebbe stata la sua vita?
«Molto presto. Ho subito avuto in mente questa prospettiva. Anche perché a scuola non ero particolarmente bravo, e poi tutto il mio tempo lo trascorrevo montando a cavallo. Devo dire che i miei genitori mi hanno sempre molto sostenuto in questo. Anzi, loro mi hanno sempre sostenuto in qualunque cosa io volessi fare… ».
Lei ha trascorso un lungo periodo in Germania nelle scuderie di Ludger Beerbaum a Riesenbeck: come è nata questa esperienza?
«Quando io ho cominciato ad andare in concorso Ludger era il numero uno assoluto, il mio idolo. E mi sono detto: se voglio diventare bravo devo andare dal migliore. Sono stato anche fortunato perché una delle groom che conoscevo meglio, Malin Lindskog, a un certo punto è andata a lavorare proprio da Ludger a Riesenbeck: così le ho chiesto in continuazione se potevo andare anche io lì anche solo per poter vedere, guardare, capire… magari anche montare un po’. Nel frattempo avevo compiuto 22 anni, avevo la mia scuderia a casa grazie ai miei genitori, i quali appunto mi hanno sempre sostenuto dicendomi però che lo avrebbero fatto fino al compimento della mia carriera da young rider: dopo mi sarei dovuto gestire in autonomia. Così mi sono reso conto che per crescere e migliorare davvero quella non era la via giusta: da solo con la mia scuderia non avrei mai raggiunto gli obiettivi che volevo raggiungere. Per fortuna Malin a un certo punto mi ha fatto sapere che ci sarebbe stata la possibilità di andare nella scuderia di Beerbaum per circa un mese, e così io sono partito di corsa. E quel mese di vita in quel posto mi ha completamente conquistato: era quello che avrei voluto fare. Quindi qualche mese dopo ho venduto tutto e mi sono trasferito da Ludger».
Deve essere stata un’esperienza magnifica…
«I tredici anni che ho trascorso da Ludger Beerbaum sono stati la mia Harvard, la mia università. Ho imparato tutto lì. Oggi ci sono tanti cavalieri bravi dentro un campo ostacoli ma quella è la parte più piccola dell’essere uomini di cavalli: la parte più grande e più importante è la gestione della scuderia, del lavoro, dell’alimentazione, della cura veterinaria, la necessità di fare star bene i cavalli fisicamente e mentalmente, che siano sereni, che vivano un equilibrio armonico in tutto quello che fanno… Non può esistere alcun tipo di successo se non si gestiscono bene i cavalli: e senza di loro noi siamo niente… A parte tutto questo, l’altra cosa fondamentale che ho imparato con Ludger è l’importanza del lavoro in piano: non solo per questioni di carattere prettamente tecnico, ma proprio per il mantenimento del benessere fisico e mentale dei cavalli. Sembra banale da dire, ma per fare stare bene un cavallo lo si deve montare bene».
Perché poi ha lasciato la scuderia di Ludger Beerbaum?
«Sono arrivato lì nel 2003 e sono andato via dopo le Olimpiadi di Rio de Janeiro nel 2016… Perché la vita è così, ogni tanto ci si trova davanti a un bivio e bisogna scegliere quale via seguire. Io sono sempre andato avanti seguendo i miei sentimenti e le mie sensazioni, molto di pancia insomma. A 35 anni mi sono reso conto del fatto che il tempo passa e si invecchia rapidamente: ho capito che quello era il momento in cui mi sarei dovuto mettere alla prova, il momento in cui avrei dovuto prendere le mie responsabilità. Così ho lasciato Riesenbeck per iniziare la mia carriera da solo. Non è stato certo facile all’inizio, ero molto preoccupato, temevo di non riuscire, temevo di fallire, ma sapevo anche che dovevo provare».
Oggi come è organizzata la sua scuderia?
«Per la scuderia mia e di Janika (Sprunger: amazzone elvetica di alto livello internazionale, n.d.r.) abbiamo iniziato i lavori nel giugno del 2020 e poi ci siamo trasferiti lì il 6 aprile del 2021, due giorni dopo la nascita di nostro figlio Noah. Si trova in Olanda, a Kessel. Era il nostro sogno, adesso viviamo lì, abbiamo in tutto 26 box divisi in due scuderie: la nostra con 14 box e quella per i miei clienti con 12. Non teniamo troppi cavalli perché vogliamo dedicare a ciascuno di loro il giusto tempo e le giuste attenzioni, e soprattutto vogliamo farlo noi personalmente. Io voglio avere il controllo di tutto. Mi sono reso conto che in futuro avrei voluto dare questa impostazione alla mia scuderia mentre ero da Ludger Beerbaum: lì ci sono un centinaio di cavalli, diversi cavalieri, molta gente… Tutto magnifico, ma troppo grande per me».
Avete un gruppo di proprietari per i vostri cavalli?
«Sì, pochi ma persone magnifiche. Janika ha uno sponsor che la sostiene ormai da una ventina d’anni, Georg Kaehny, poi Robin Parsky, statunitense, che è la proprietaria di Glamour Girl, quindi la famiglia svedese Tovek e la loro figlia Evelina che monta con me ormai da molti anni. Abbiamo anche alcuni cavalli di nostra proprietà, alcuni inevitabilmente ogni tanto vengono venduti».
Questioni di bilancio?
«Eh sì, per forza. Mantenere l’attività è una vera e propria sfida. È vero che oggi il montepremi delle gare in concorso è molto alto e se si hanno uno o due cavalli di alto livello si può guadagnare vincendo, ma credo che pensare di vivere solo con le vincite in gara sia molto pericoloso… In realtà le vincite in denaro in concorso devono essere considerate come delle entrate extra: altrimenti si rischia di dover aumentare il numero dei cavalli da portare in gara per aumentare le vincite, e questo non va bene perché non consente di lavorare al meglio ciascun cavallo. Ogni cavallo deve avere il suo piano di lavoro e di gara, che non può essere compromesso. Noi vogliamo rimanere nel piccolo e nella qualità: alla fine questa vita è molto dispendiosa economicamente parlando, ogni mese ci sono grandi spese alle quali far fronte e naturalmente più in grande sei maggiori sono le spese. Quindi cerchiamo di stare nel piccolo e nella qualità: cosa che ci consente di avere un po’ meno spese e nello stesso tempo di dedicarci meglio a ciascun cavallo».
Al di là degli aspetti personali e familiari, il rapporto tra lei e Janika deve essere molto importante anche dal punto di vista dello sport…
«Janika e io abbiamo la stessa visione delle cose, gli stessi pensieri, lo stesso modo di intendere il rapporto con i cavalli. Quello che facciamo insieme è il nostro lavoro, ma è anche la nostra vita: credo che siano pochissimi i giorni che abbiamo trascorso insieme senza cavalli… Adesso abbiamo una casa meravigliosa che abbiamo costruito insieme, facciamo tutto insieme. Io non potrei desiderare assolutamente niente di meglio».
Tra l’altro King Edward era montato proprio da Janika fino a poco tempo fa.
«Sì, era un cavallo per lei grazie a Georg Kaehny che la sostiene come ho detto da circa una ventina d’anni. Quando abbiamo visto King Edward l’abbiamo provato insieme, ma poi il passaggio a me è stato naturale quando Janika è rimasta incinta di nostro figlio Noah. Però noi montiamo e ci alleniamo sempre insieme quindi io King Edward l’avevo montato molto spesso anche prima che Janika si fermasse: e con lui ho avuto sensazioni favolose fin dal primo momento perché lui è davvero un cavallo speciale».
King Edward è sferrato proprio come All In di Peder Fredricson: è stato quindi Fredricson a suggerirle questa possibilità?
«No, Peder non c’entra in questo. Il fatto è che inizialmente mi è sembrato che King Edward non fosse del tutto a suo agio ricevendosi dall’ostacolo, aveva la tendenza a spostarsi sempre un po’ verso destra. Niente di particolare, una semplice sensazione. Lui poi ha una salute di ferro, non gli abbiamo mai trovato nulla di nulla. Un giorno parlavo con Julien Epaillard (cavaliere francese, n.d.r.) il quale monta ugualmente i suoi cavalli sferrati, e ci siamo scambiati un po’ di considerazioni su questo tema. Così ho provato a togliere i ferri anche a King Edward, il quale tra l’altro è sempre stato un po’ sensibile alla ferratura… e ha funzionato! King Edward ha subito dimostrato di trovarsi molto ma molto meglio senza ferri. E così adesso monto tutti i miei cavalli sferrati».
Che tipo di cavallo è King Edward, facile, difficile, di personalità… ?
«È il cavallo perfetto, ha tutto quello che si può desiderare al meglio in un cavallo: una testa straordinaria, una forza quasi incredibile per un cavallo non particolarmente grande come è lui, un’abilità eccelsa in campo ostacoli. La cosa più impressionante però è che quando siamo in gara io sento che lui vuole fare del suo meglio, vuole finire il percorso senza errori. E gli piace farlo. C’è poco da dire: è il cavallo perfetto. Tutto quello di cui ci dobbiamo preoccupare è solo di farlo stare bene e di renderlo felice. Di essere sempre in ottima forma ma allo stesso tempo rilassato: lui di natura è molto insanguato e quindi può diventare molto teso e nervoso se troppo fresco, e questo ovviamente non va bene. Quindi il giusto equilibrio lo si raggiunge quando lui è non troppo fresco e non troppo rilassato. In questa situazione quando è in gara sprigiona una forza e un’energia davvero formidabili».
A casa invece?
«Oh, a casa è sempre molto tranquillo e pacifico, facile da gestire. Come una specie di grosso cagnolone… Potrebbe stare in salotto con noi!».
LA SCHEDA DI HENRIK VON ECKERMANN
Anno Ind. Sq. Luogo Cavallo
OLIMPIADI
2021 4° 1° Tokyo King Edward
2016 24° 7° Rio de Janeiro Yajamila
2012 23° 6° Londra Allerdings
CAMPIONATO DEL MONDO
2022 1° 1° Herning King Edward
2018 26° 2° Tryon Mary Lou
2014 38° 6° Caen Gotha
CAMPIONATO D’EUROPA
2019 6° 5° Rotterdam Mary Lou
2017 21° 2° Goteborg Mary Lou
2015 19° 9° Aquisgrana Cantinero
2013 27° 3° Herning Gotha
2011 5° 5° Madrid Coupe de Coeur
2009 48° 8° Windsor Montender
COPPA DEL MONDO
2019 20° /// Goteborg Mary Lou
2018 3° /// Parigi Bercy Mary Lou
2017 3° /// Omaha Mary Lou
2016 15° /// Goteborg Giljandro van de Bosran
2013 8° /// Goteborg Gotha