Bologna, lunedì 25 gennaio 2021 – «Adesso pian piano devo riabituarmi all’Italia… Non sarà facilissimo, anche perché fatta eccezione per i miei amici, e forse qualcuno della mia generazione, credo che non mi conosca più assolutamente nessuno… !».
In effetti trent’anni non sono pochi… e tanto è il tempo trascorso da Mauro Atzeri (57 anni) negli Stati Uniti dal 1991 a oggi. Trent’anni: una vita. E non si può dargli torto: oggi ci sono donne e uomini di cavalli adulti e anche molto affermati che Mauro Atzeri non solo non l’hanno mai visto, ma nemmeno mai sentito nominare… Adesso però chi non sa chi sia Mauro Atzeri avrà l’opportunità di vederlo e conoscerlo, e così di poter apprezzare una persona di qualità rare e preziose: il cavaliere Atzeri è magnifico, fine, elegante, sensibile, esploratore appassionato e competente dell’universo costituito da ciascun cavallo indifferentemente; l’uomo Atzeri è equilibrato, calmo, paziente, gentile, sommesso, discreto, possessore di un’esperienza accumulata lungo momenti di vita che pochi al mondo possono dire di aver vissuto. Mauro Atzeri è rientrato in Italia, è tornato a casa. Dopo trent’anni. Finalmente, dovremmo aggiungere…
Lei ha lasciato l’Italia nel 1991. Perché è partito?
«Volevo vedere e imparare cose nuove. Sono andato via dopo un ottimo periodo: nel 1989 avevo conquistato la medaglia di bronzo nel Campionato d’Italia in sella a un cavallo favoloso che si chiamava Ammon, sempre piazzato in tutti i Gran Premi internazionali cui aveva partecipato. Dopo quello dell’internazionale di Catania dove avevamo ottenuto il 2° posto però Ammon è stato venduto a Vittorio Orlandi. Mi è dispiaciuto anche perché il c.t. della nazionale Graziano Mancinelli ci stava tenendo d’occhio in vista del Campionato del Mondo del 1990».
Ed è andato negli Stati Uniti nella scuderia di Joe Fargis e di Conrad Homfeld… Ma come ha fatto a stabilire il contatto?
«Fargis un giorno venne nella scuderia di Giampaolo Rolli per il quale io lavoravo da cinque anni: a quei tempi la scuderia e l’allevamento San Michele erano una realtà di altissimo livello. Fargis venne per provare proprio Ammon e mi vide montare: mi disse che se volevo potevamo rimanere in contatto, se vuoi vieni e provi… Io ci ho messo un anno a decidere, mi ha aiutato moltissimo la contessa Meneghetti perché io non sapevo l’inglese, e sebbene lei facesse parte del mondo del completo per me ha telefonato, ha scritto, mi ha tradotto tutto… ha fatto un grandissimo lavoro per me. Così dopo un anno da quel primo incontro con Joe Fargis mi sono organizzato e sono partito».
Cosa lasciava in quel momento, nel momento della sua partenza?
«Tutto. Famiglia, amicizie, lavoro. Tutto. Non parlavo una sola parola d’inglese e l’unica persona che conoscevo era appunto Joe Fargis. Era un salto enorme in un mondo per me completamente sconosciuto ma che mi affascinava tantissimo. La nazionale degli Stati Uniti aveva vinto le Olimpiadi del 1984 a Los Angeles e il Campionato del Mondo del 1986 ad Aquisgrana, il cinquanta per cento di questa squadra fortissima era composto appunto da Joe Fargis e da Conrad Homfeld, i quali a Los Angeles avevano vinto anche l’oro e l’argento individuali… E in più a me piaceva enormemente quella equitazione, la loro equitazione. Insomma, in quegli anni loro e la loro scuderia erano davvero il massimo».
Torniamo un attimo indietro. Come è arrivato alla scuderia San Michele di Giampaolo Rolli?
«È stato Raimondo d’Inzeo a fare in modo che io arrivassi da Giampaolo Rolli».
Ecco, Raimondo d’Inzeo. Che ruolo ha avuto nella sua carriera di cavaliere?
«Fondamentale. È stato lui a scoprirmi quando ero un ragazzino… ».
Allora, fermiamoci un attimo e riavvolgiamo il nastro… Partiamo proprio dall’inizio.
«Il primo che mi ha messo in sella è stato mio padre Federico. Lui è stato palafreniere alla Scuola Militare di Equitazione a Montelibretti, quindi ha lavorato come groom e come capo scuderia in scuderie importanti per poi mettersi per conto suo a Torino e organizzarsi un’attività con un buon numero di persone che montavano da lui. In questa fase ha messo a cavallo sia me sia mio fratello Silvio».
Quindi suo padre è stato il suo primo istruttore?
«Sì, però da vero autodidatta aveva capito l’importanza di una seria e corretta istruzione: così ogni giorno ci portava alla Società Ippica Torinese a lezione con il maresciallo Ottavio Dovadola, con i cavalli della scuola. Poi a un certo punto papà è andato a lavorare da Lalla Novo a Racconigi, al Centro Ippico La Betulla, e così io e mio fratello abbiamo cominciato a montare i cavalli che stavano lì».
Un uomo in gamba, suo padre…
«Oggi ha 86 anni. Tutti i giorni si alza alle quattro di mattina per andare ad aiutare mio fratello Silvio nella sua scuderia: vuole essere lui a dare il fieno ai cavalli… come i vecchi uomini di scuderia di una volta, non c’è niente da fare, lui è così… ».
Arriva quindi il contatto con Raimondo d’Inzeo…
«Sì, mentre eravamo da Lalla Novo. Lei ha organizzato uno stage con lui. Il colonnello mi ha notato, ha fatto i complimenti a mio padre e gli ha raccomandato di continuare a darmi la possibilità di montare a cavallo e di imparare».
Beh, di certo una cosa che non capita tutti i giorni!
«Per me è stato importantissimo. Poco dopo mio padre si è trasferito a Roma per lavorare da Duccio Bartalucci, che allora aveva i cavalli a Villa Glori, cavalli importanti. E mio fratello e io abbiamo cominciato a montare i cavalli di Duccio. Io avevo 18 anni. Abbiamo cominciato anche a fare i primi concorsi proprio in quel periodo. E quindi Raimondo d’Inzeo mi ha rivisto: ed è cominciata così la mia esperienza con lui ai Pratoni del Vivaro come cavaliere federale nel 1983».
E quanto è durata?
«Fino al 1986. Ma nel mezzo c’è stata anche un’altra esperienza importantissima per me. Ho fatto il servizio militare e mi hanno mandato a Trieste, dandomi alcuni cavalli da montare al Centro Federale di Portogruaro diretto dal generale Lucio Manzin. Così ho lavorato con lui: veramente un grande uomo di cavalli, grandissimo uomo di cavalli. È stato il primo a insegnarmi un lavoro in piano corretto e completo. E poi era una persona intelligente… Uno dei miei grandi rimpianti è quello di non averlo frequentato di più, soprattutto di non essere rimasto in contatto con lui dopo essere tornato ai Pratoni… Ma a quel tempo ero un ragazzino molto timido… Penso spesso a lui, al generale Manzin, mi ha dato tantissimo anche mentalmente diciamo, ha contribuito moltissimo alla mia crescita di persona».
Comunque lei è senza dubbio una creatura di Raimondo d’Inzeo, no?
«Beh, gli anni trascorsi con il colonnello ai Pratoni sono stati quelli della mia formazione, della mia definizione come cavaliere. Il legame con lui è rimasto fortissimo, mi sono sempre sentito come un figlio per lui: quando stavo in America ci sentivamo molto spesso al telefono, lui mi chiamava, io gli mandavo le videocassette con i percorsi dei miei cavalli, poi li commentavamo insieme… Raimondo d’Inzeo è stato un uomo fantastico».
Quindi poi ha lasciato i Pratoni nel 1986…
«Sì, dopo l’esperienza con Marcel Rozier come commissario tecnico della squadra nazionale. Gianluca Palmizi e io ce ne siamo andati proprio negli stessi giorni, e insieme abbiamo cominciato una nuova tappa importantissima della nostra vita nella scuderia di Giampaolo Rolli».
Anche perché Giampaolo Rolli aveva una squadra di cavalli favolosi… !
«Sì, quasi tutti acquistati in Germania da Paul Schockemoehle, infatti era Ludger Beerbaum il suo cavaliere incaricato di seguire noi, di aiutarci nei concorsi importanti. Ludger veniva a San Michele spesso prima delle trasferte, in modo da farci lavorare secondo le sue direttive; ma anche io andavo spesso in Germania nella loro scuderia per conoscere e prendere contatto con i cavalli prima che arrivassero da noi. Giampaolo Rolli investiva soprattutto in cavalli di esperienza, che poi potevano essere rivenduti bene. Il cavallo con il quale io ero entrato nella lista dei probabili olimpici per Seul 1988 si chiamava Walido: da Schockemoehle l’aveva montato Franke Sloothaak, poi mentre lo stavo montando io è stato venduto all’Infanta di Spagna… ».
La sua è un’equitazione che si è sempre distinta chiaramente per l’eleganza, la raffinatezza, l’equilibrio… Caratteristiche che fanno parte del suo modo di essere, oppure costruite strada facendo?
«Un po’ è il mio modo di essere. Ma poi io sono stato molto fortunato, e per capirlo basta dare uno sguardo all’elenco delle persone con le quali ho lavorato: Ottavio Dovadola, Lalla Novo, grande donna di cavalli dall’equitazione classica e bellissima, poi Duccio Bartalucci, Raimondo d’Inzeo, Lucio Manzin, Ludger Beerbaum, Joe Fargis… Non so quanti possano dire di aver avuto la fortuna di lavorare con ben tre istruttori e trainer vincitori dell’oro olimpico individuale come Raimondo d’Inzeo, Ludger Beerbaum e Joe Fargis… A volte quando lo racconto penso che la gente non mi creda… ».
Ma quando è arrivato in Usa non si è sentito all’inizio un po’ in difficoltà? Un po’ solo e sperduto? Oppure la voglia era tale da farle superare tutto questo?
«Sì, all’inizio nel lavoro c’era molta solitudine e poi il mio non parlare inglese mi emarginava abbastanza. Però ero felice di poter vedere e vivere dentro quell’equitazione così bella… E soprattutto di vedere all’opera gente che metteva i cavalli sempre al primo posto. Lì ho riscoperto la stessa equitazione dalla quale ero partito anche io, un’equitazione bella, raffinata, fatta di estrema cura del dettaglio, che aveva la massima attenzione per i cavalli. Tutto ciò mi ha un po’ rivitalizzato perché il periodo tedesco mi… aveva messo un po’ giù proprio sotto il profilo del rapporto con i cavalli».
Quali erano le sue mansioni una volta arrivato nella scuderia di Fargis e Homfeld?
«Molto semplice: fare tutto! Avevano molti clienti all’epoca e c’erano dei giorni in cui montavo per loro anche quindici o sedici cavalli. Oltre a fare tutto il resto. Poi a un certo punto Joe si è rotto una gamba e allora ho cominciato a uscire io in concorso con i cavalli dei suoi clienti, tra i quali anche i proprietari di Touch Of Class (la cavalla vincitrice con Joe Fargis dell’oro olimpico individuale e a squadre a Los Angeles 1984, n.d.r.), i Currey, e da lì sono passato a montare anche i loro cavalli: il figlio, Christian, aveva composto la squadra che aveva vinto la Coppa delle Nazioni ad Aquisgrana nel 1985 con appunto Fargis, Homfeld e Jacobs… insomma, gente che aveva cavalli del massimo livello. Montavo i loro cavalli seguendo comunque la scuderia di Joe Fargis in tutti i suoi spostamenti per la stagione invernale in Florida a Wellington, poi a Long Island a New York».
Cosa l’ha impressionata di più al suo arrivo negli Stati Uniti, nel confronto con una realtà così diversa da quella europea?
«L’umiltà di questi campioni che pure avevano vinto le gare più importanti del mondo. La loro inesauribile voglia di imparare. La dedizione assoluta al lavoro. La continua ricerca di miglioramento. Il massimo rispetto per i cavalli. L’attenzione per i dettagli apparentemente più insignificanti ed elementari. Cioè, loro si correggevano la posizione della mano anche uscendo in passeggiata… ».
Quali sono state le fasi principali della sua vita e del suo lavoro in Usa?
«I primi cinque anni li ho passati in giro per le scuderie di Fargis e Homfeld. Poi mi sono trasferito ad Atlanta per mettermi in proprio in una scuderia di una signora che aveva dei cavalli in lavoro con me, e con me sono arrivati lì anche altri proprietari con altri cavalli. Quella è stata la mia base per il periodo primavera- autunno, per la stagione invernale andavo in Florida a Wellington. Poi ho anche intrapreso l’attività di istruzione».
La decisione di rientrare in Italia da cosa nasce?
«La mia fidanzata è italiana. Abbiamo provato per più di due anni a fare in modo che lei potesse rimanere negli Stati Uniti più spesso per periodi lunghi, ma lì sono molto restrittivi… insomma, dopo due anni di avanti e indietro senza poter fare più di 120 giorni all’anno… e poi anche dal fatto che i miei genitori stanno diventando sempre più anziani… ».
Ma la sua fidanzata è donna di cavalli?
«Sì, Michela è una donna di cavalli».
Capisce le dinamiche…
«Capisce, capisce».
Quindi adesso il progetto qual è?
«Per adesso mi sono installato in Puglia, ho portato due cavalli dagli Stati Uniti, e sto vicino a dove abita Michela. Meno male che in Puglia fa caldo così non sento troppo la differenza con il clima della Florida… ! Continuo a svolgere attività commerciale che funziona ancora bene nonostante io non sia più fisicamente in America. Quello che mi piacerebbe davvero sarebbe trasferire un po’ dell’esperienza che ho accumulato negli anni, quindi insegnare. Mi piacerebbe anche trovare dei cavalli giovani da portare avanti nel lavoro… Insomma, un po’ tutto, le cose che ho sempre fatto alla fin fine».
È felice di essere tornato in Italia dopo ben trent’anni?
«Sì, certo. Mi mancava il mio Paese, la gente, la vita sociale. Solo che adesso l’Italia per me è una nuova esperienza: anche perché non mi conosce più nessuno… !».