Bologna, 30 dicembre 2017 – Lorenzo de Luca è seduto su uno dei divani di pelle bianca dei salotti dell’Hotel Starling. Siamo a Ginevra, un giorno di dicembre del 2016. Il cavaliere azzurro ha incantato il pubblico del gigantesco Palexpo con la sua equitazione bella, leggera e vincente. Domanda: lo sa che gli addetti ai lavori scommettono che l’anno prossimo lei sarà in campo qui a Ginevra per la finale della Top 10 Rolex Ijrc? Risposta: eh, intanto sono al 17° posto della computer list… non sarà facile, ci proveremo ovviamente ma non sarà per niente facile… comunque, mi fa piacere che intanto lo si dica!
Un salto in avanti di dodici mesi. Giovedì 7 dicembre 2017. Lorenzo de Luca è seduto sempre sullo stesso divano di pelle bianca di uno dei salotti dell’Hotel Starling a Ginevra. Un anno dopo. Sorride con quel suo bel sorriso aperto e contagioso e caldo e pieno di colori: «Sabato sera vedrò per la prima volta il percorso della finale Top 10 Rolex Ijrc con un paio di pantaloni che non sono i jeans… !». Già: perché ‘quel’ sabato sera, 9 dicembre, Lorenzo de Luca avrebbe effettuato la ricognizione del percorso della prestigiosa competizione mondiale indossando gli stivali e i pantaloni blu scuro della divisa dell’aeronautica militare. Da concorrente. Primo italiano della storia in gara nella finale riservata ai migliori dieci del mondo… ! (Poi sappiamo come è andata: una prima manche da sogno, primo posto in classifica provvisoria davanti agli altri nove, i sogni che vanno a mille, ultimo a entrare nella seconda frazione di gara, e… maledizione, un errore che vanifica il 2° posto, Lorenzo ed Ensor de Litrange rimangono in quinta posizione, ma la gioia è immensa comunque, stiamo parlando di un evento che resterà per sempre immodificabile e inscalfibile nella storia del salto ostacoli d’Italia: Lorenzo de Luca sarà per sempre il primo italiano ad essere arrivato lassù… ).
L’anno scorso eravamo proprio qui, su questi stessi divani chiedendoci chissà se l’anno prossimo… Cosa è successo per lei in questi dodici mesi?
«È successo che mi sono confermato in uno sport che solo pochi anni fa pensavo irraggiungibile. E invece eccomi qui… !».
Dodici mesi vissuti lungo una serie di gioie e soddisfazioni inebrianti…
«Sì. E poi bisogna riconoscere che stare costantemente a quel livello ti sprona a fare sempre meglio. È una cosa che fa crescere. Perché ci si rende conto che è difficile stare lassù, e che per farlo ci vogliono cavalli sempre al meglio, e che per avere cavalli sempre al meglio è necessario pensare in prospettiva e lavorare sui giovani che un giorno possano sostituire gli anziani senza che il livello cali… Una catena, insomma».
Il difficile è evitare che la catena si interrompa.
«Certo. Ci vuole anche esperienza. Capacità di capire come devono andare le cose. Essere sempre e costantemente a contatto dei più grandi cavalieri del mondo insegna anche questo: come gestire la carriera dei cavalli, cosa è necessario fare per creare una superstar e per poi mantenere il livello di superstar».
Non ha un po’ timore del momento in cui Ensor de Litrange non sarà più competitivo come lo è stato fino a oggi?
«No, assolutamente. Chi fa questo sport sa benissimo che assaporare il massimo livello a volte è una vera fortuna. Noi siamo stati piuttosto bravi a vivere due anni di gran successo, cosa per niente facile: lo vediamo ogni giorno, tra vendite, infortuni, cali di forma… non è per niente facile davvero. Per noi intendo Stephan Conter, il mio team e io: una vera e propria squadra».
Quindi bisogna essere anche mentalmente preparati a scendere…
«Ma certo. Pensare che un domani si possano perdere posizioni nella computer list per esempio è assolutamente normale: la normalità più normale nel nostro sport. È chiaro che sarebbe bello poter rimanere sempre lassù, ma bisogna pensare anche ai cavalli giovani da costruire, e alla fin fine il bello del nostro sport è proprio la salita, l’ascesa, la crescita di livello. Quindi non bisogna esagerare nel voler a tutti i costi essere sempre lì. Anche se diventi il numero cinquanta va bene uguale, va bene lo stesso. Ci sono tantissimi buoni cavalieri che nel momento in cui si trovano ad avere un solo cavallo per forza di cose scendono. L’importante è cercare di fare il massimo per rimanere sempre in un buon livello di sport, ma noi dobbiamo pensare anche ai cavalli giovani… ».
Parlando di crescita: nel mese di settembre lei era il numero due del mondo… Pensava alla possibilità di diventare il numero uno?
«Allora, in tutta sincerità io non pensavo proprio di poter arrivare così in alto. Con altrettanta sincerità dico anche che della computer list non è che me ne sia importato poi così tanto. Cioè, la cosa importante è cercare di fare sempre tutto al meglio, poi le cose vengono di conseguenza. Quando non sei lassù desideri tantissimo arrivarci, ma poi quando ci arrivi devi rimanere veramente con i piedi per terra ed essere consapevole che nel giro magari di tre o quattro mesi si scende… ».
Torniamo quindi alla necessità di gestire al meglio l’impegno dei cavalli.
«Naturale. Faccio l’esempio del mio caso. Io ho due super cavalli di primo livello come Ensor de Litrange e Armitages Boy: so benissimo che quando siamo in concorso se io non sbaglio niente qualcosa di buono succede per forza con due fuoriclasse del genere. Quindi li devo salvaguardare il più possibile: quest’anno è accaduto grazie all’impegno di Halifax van het Kluizebos e Limestone Grey, l’anno prossimo si aggiungerà anche Jeunesse van het Paradijs più altri soggetti nuovi che mi ha affidato Stephan. La nostra bravura deve stare lì: gestire il tutto senza forzare. Forzando si rischia di perdere non un mese ma tutta la stagione. Ormai oggi è diventato tutto talmente difficile che è assolutamente impensabile andare in concorso con un cavallo che è al 50% delle sue possibilità: impossibile. Io sono arrivato a un punto che non voglio schiacciare troppo sull’acceleratore. Non voglio dire che non devo dimostrare ormai più niente a nessuno, non è questo: è che voglio viaggiare in parallelo con i miei cavalli».
A proposito di questo: tra le tante gemme del 2017 c’è stata anche una piccola parentesi meno felice, cioè il Campionato d’Europa di Goteborg dove lei era atteso come uno dei massimi protagonisti, così come l’intera squadra azzurra del resto… È stato questo il caso di un cavallo non al 100%?
«Un po’ sì… sì, devo dire di sì. Ma lo si dice con il senno di poi, perché in realtà Armitages Boy pareva in grande forma fino all’immediata vigilia. Avevamo fatto Londra come ultimo concorso prima di Goteborg e lui aveva fatto due netti fantastici. Perfetti. Poi dopo il warm-up a Goteborg non l’ho sentito benissimo: cioè, lui si muoveva bene ma a me pareva di sentire qualcosina che non era come al solito. Anche dopo il percorso che lui ha finito netto mi sembrava di non sentirlo come sempre. Poi nel terzo percorso ammetto di averlo montato un po’ demotivato: quando un cavallo del genere non lo senti al 100%… eh, non è facile. Infatti quando c’è stato l’errore al numero uno ho subito pensato dentro di me adesso mi ritiro. Poi anche Roberto Arioldi che è un vero uomo di cavalli mi ha detto che avevo fatto bene a ritirarmi… Inutile finire un percorso che non sarebbe valso a nulla con un cavallo che non è al meglio ma che nel 2018 sono sicuro che mi darà tantissime soddisfazioni. E voglio dire anche che Arioldi mi è stato di grandissimo sostegno e supporto, mi ha sempre dato tanta carica e tanta fiducia».
Ma cosa sentiva di… strano in Armitages? Cioè, che tipo di sensazione aveva?
«Non è facile descriverlo a parole… Come se lui si trattenesse, non si lasciasse completamente andare, come se ci fosse una piccola tensione… E teso di solito lui non lo è per niente, anzi, proprio il contrario, Armitages Boy è un cavallo estroverso per natura, che vuole sempre dimostrare tutto al meglio e al massimo… ».
A proposito di 2018: con Stephan Conter avete già tracciato i programmi per la nuova stagione agonistica?
«Sì, certo. L’obiettivo principale è arrivare al Campionato del Mondo con Ensor in piena forma. Stephan avrebbe voluto impegnare Ensor anche per il Campionato d’Europa a Goteborg, ma poi dopo averne parlato un po’ abbiamo scelto Armitages Boy. Poi purtroppo le cose non sono andate come speravamo ma un esito positivo c’è stato comunque: Stephan ha acquistato il 50% del cavallo. Inizialmente Armitages Boy era arrivato da noi per essere venduto: adesso invece insieme agli altri due proprietari Guillaume Canet e Gregory Mars lo terremo per me e per le monte».
Ma è una cosa meravigliosa!
«Sì, esatto, queste cose regalano una gioia perfino superiore a quella per la vittoria di un grande Gran Premio. Pensare che quando vedevo Armitages Boy in gara in televisione dicevo ogni volta ma quanto mi piacerebbe montare un cavallo del genere… E poi eccolo che arriva in scuderia da noi! Purtroppo Armitages ha avuto una vita poco felice perché sempre succube di litigi tra proprietari, poi vittima di infortuni… nella sua eccezionalità è stato un po’ sfortunato. Adesso poter contare su di lui, e soprattutto sapere che lui può stare con me, e stare con me vuol dire stare bene… beh, è bello per me ed è bello per lui».
Quindi Campionato del Mondo. Sarà la prima possibilità per noi di qualificarci per le Olimpiadi, cosa che da quando esistono le qualifiche, cioè dal 1996, siamo riusciti a fare solo una volta… Ci pensate voi cavalieri?
«Certo, certo… eccome!».
Perché ultimamente c’è un acceso dibattito tra chi sostiene che ormai ai cavalieri professionisti interessino solo le gare che hanno un grande valore economico a discapito di quelle che invece dispensano gloria e prestigio, ma pochi soldi…
«Se parliamo di gare di grande valore economico ovviamente facciamo riferimento al Global Champions Tour. Che però ha anche un grandissimo valore sportivo. Io il circuito Global l’ho fatto in modo intenso solo nel 2017 praticamente, e devo dire che è un altissimo livello di sport. Ottimo come preparazione a un campionato internazionale. Poi è evidente che di fronte a un Campionato del Mondo tutto passa in secondo piano, è inevitabile: i campionati rimangono nella storia, rappresentano un momento al quale tutti i cavalieri sognano di poter partecipare e più ancora di poter salire sul podio. Detto ciò, che ci siano altri circuiti per lo sport è solo un bene: fino a solo pochi anni fa queste cose non esistevano nemmeno… Ci sono chiaramente dei pro e dei contro perché delle wild card così costose non si sono mai viste, ma è anche vero che il nostro sport funziona così da tanto tempo: qualunque cavaliere anche se di talento ha dovuto spendere dei soldi per poter fare gare prima o poi nella sua vita. Che si sia alzato il livello di pay card… beh, è fuori discussione, è inevitabile, questo sistema esiste da tempo, io ormai sono dodici anni che faccio la carriera internazionale e fin dai miei primi concorsi piccoli c’è sempre stato chi ha tentato di farmi prendere un tavolo… ».
La partecipazione a un evento è concordata tra lei e Stephan Conter oppure decide solo lui?
«No no, ne parliamo sempre insieme. Abbiamo un ottimo rapporto, molto aperto e di gran dialogo. Io poi cerco sempre di mantenere tutto nel giusto equilibrio, che non si vada mai né troppo sopra né troppo sotto le righe. Chiaramente ci sono degli appuntamenti su cui bisogna conciliare… Per esempio quest’anno io non penso proprio alla Coppa del Mondo».
In effetti in classifica è piuttosto lontano dalla zona di qualifica per la finale…
«Sì certo, devo essere razionale, devo pensare che Armitages Boy non sarebbe pronto per inizio aprile, voglio riprenderlo a gennaio per poi fargli fare qualche piccolo concorso, magari il tour a Oliva, non so ancora, mentre Ensor lo voglio preservare in vista del Campionato del Mondo, lui entra nei quattordici anni, è in forma, non voglio strafare».
E Halifax?
«Halifax farà qualche tappa di Coppa del Mondo ma più che altro per lui, come momento di lavoro perché al chiuso è ancora un po’ incostante, è molto irruento e quindi faccio sempre un po’ più di fatica rispetto a quando siamo fuori. Lui ha dieci anni ma è ancora molto verde di testa, ha bisogno di crescere, vorrei fargli fare ancora tre o quattro buoni indoor per la sua crescita e poi dargli un mesetto di tranquillità prima che inizi la stagione outdoor».
Uno dei momenti più entusiasmanti del 2017 è stata la vittoria della Coppa delle Nazioni a Roma. Come ha vissuto quella situazione?
«Per me è stata un’emozione pazzesca… Del resto si è visto, con tutte le foto che giravano di me in lacrime… !».
Lei poi non era nemmeno nato quando si è vinto l’ultima volta, nel 1985…
«Davvero. Una cosa pazzesca, a pensarci bene. È stato bello vincere, ma è stato bellissimo farlo con questo gruppo. Con Alberto ci conosciamo da tantissimi anni, poi quando io sono andato in Veneto a lavorare per Rory Marzotto stando vicini abbiamo approfondito il nostro rapporto. Con Piergiorgio abbiamo una storia davvero molto simile. Bruno… beh, lui è calabrese, io pugliese, siamo proprio sangue dello stesso sangue. Bello che fossimo noi quattro in squadra. Bello che quattro piccoli sognatori siano riusciti a realizzare un grande sogno».
Quel giorno c’era una tensione pazzesca a Piazza di Siena. Ma anche la sensazione che ce la si potesse fare, che forse sarebbe stata la volta buona… Pensa che potesse dipendere anche dal fatto che sia lei sia Alberto Zorzi provenivate da una serie di prestazioni favolose?
«Sì, credo di sì. Avevamo avuto un boom di risultati tale per cui ci sentivamo quasi in dovere di avere successo anche a Roma. Non vorrei sembrare presuntuoso, ma credo di poter dire che un livello di risultati del genere non ci fosse da anni per il nostro salto ostacoli. Il nostro livello era alto, venivamo da concorsi molto importanti e sempre da protagonisti: quindi questa cosa se da un lato autorizzava pensieri positivi, dall’altro ci ha messo una bella tensione addosso perché sarebbe stato pazzesco non confermare quei risultati proprio a Roma. Non ci fossimo riusciti saremmo stati proprio dei… bastardoni! Però è anche vero che una barriera che cade compromette tutto… Come il mio errore alla riviera: il mio cavallo non tocca mai la riviera, eppure… Anche se devo dire che per come la vedo io quell’errore è molto dubbio, io ancora non ci credo… Alla fine è andato tutto bene. Sfatata la maledizione… !».
Il prossimo maggio sarete quindi più… sciolti!
«Forse sì, ma non dobbiamo rilassarci troppo. Anche perché vincere è bello, ma rivincere perfino di più! E vincere due volte consecutive non sarebbe niente male… ».
Cosa vi siete detti in quei momenti, c’è stato qualcosa di particolare…
«C’è una fotografia che secondo me è molto significativa: ci stiamo abbracciando tra noi quattro e io in lacrime a torrente… Un po’ per quella maledetta riviera che mi ha fatto impazzire… e poi per la tensione. Quella foto secondo me rappresenta tutto, non servono tante parole, basta guardarla: lì ci sono i sacrifici, le tensioni che c’erano attorno, e anche il nostro dovere nei confronti dei nostri proprietari».
Ecco, i proprietari…
«Sì, abbiamo una grande responsabilità nei loro confronti. Sappiamo benissimo che il livello è talmente alto che sia Stephan Conter sia Jan Tops avrebbero potuto scegliere degli altri cavalieri per le loro scuderie, c’è un livello talmente alto che basta che uno si giri un attimo per trovare un cavaliere migliore di noi, non ci vuole niente. Poi, che noi siamo bravi a mantenere un equilibrio con tutto, a far crescere i giovani cavalli, a fare risultati, bene, ok… Quindi noi dovevamo anche ai nostri proprietari un risultato così. Lo dovevamo all’Italia, ma anche a loro: sono loro che ci hanno dato la possibilità di fare questo, sono loro i protagonisti di tutto».
Lei ha una percezione di sé stesso diversa rispetto a quella che poteva avere tre o quattro anni fa?
«No, non direi. Prima c’era tanta voglia di arrivare lì, dove adesso mi trovo. Poi quando arrivi lì ti rendi conto che è quasi irreale pensare di poterci rimanere per tanto tempo; diventi quasi più realista di prima e pensi più alla vita professionale nella sua complessità, a quello che viene dopo. Io ho sempre pensato questo: vivo il presente, ma con un occhio a quattro o cinque mesi avanti».
Però non può non provare un minimo di compiacimento per quello che è riuscito a fare…
«Onestamente penso che con il gruppo di cavalli che mi è stato messo a disposizione da Stephan sarebbe stato stupido e dilettantesco non essere dove adesso mi trovo. Poi che ci voglia la buona gestione, che ci voglia una buona equitazione… beh, è ovvio, questo è il minimo. Aggiungerei inoltre che bisogna essere abbastanza bravi anche nelle pubbliche relazioni, non solo con i proprietari ma anche con gli altri cavalieri. E con le persone che compongono il tuo team, la tua squadra. Se cominci a litigare con il maniscalco, con il veterinario… puoi anche essere il miglior cavaliere del mondo ma non vai da nessuna parte».
Parlando di team, di squadra: il numero uno della scuderia Stephex di Stephan Conter fino ad almeno tutto il 2016 era il tedesco Daniel Deusser: ma adesso la gerarchia si è forse rovesciata, no?
«La voglia di arrivare nei primi dieci, e quindi di superare il compagno di scuderia, c’era, inutile negarlo: ed era del tutto impensabile due anni fa. Anche se superare il compagno di scuderia è sempre stato solo un obiettivo per fare meglio: in realtà Daniel e io abbiamo un bellissimo rapporto, io sono contento quando vince lui, lui è contento quando vinco io. Non esiste rivalità: solo voglia di fare sempre meglio da parte di entrambi. La mia grande fortuna è che non sono mai stato geloso di nessuno, ed è una cosa importantissima. La gelosia è delle persone mediocri, e non dà margini di miglioramento. Questa è stata la mia grande fortuna».
Che poi è la stessa situazione che Alberto Zorzi descrive parlando del rapporto tra voi due…
«Esatto. Io sono sempre stato contento dei suoi grandi successi, e lui dei miei. Grazie a questo c’è stata una competizione positiva tra noi, un continuo spostamento verso l’alto del margine di miglioramento. Se questo principio giusto e corretto lo si allarga a più soggetti, il livello generale si alza. Credo che anche agli altri cavalieri italiani abbia fatto bene questa escalation di successi. Per esempio prendiamo Emilio Bicocchi: ha fatto una crescita con il suo cavallo portentosa, un miglioramento pazzesco. Per meriti esclusivamente suoi, ovviamente, questo è fuori discussione: ma forse un pizzico di stimolo in più può averlo dato anche la situazione positiva generale. Ed è bellissimo vedere questo».
In generale il confronto tra cavalieri di alto livello è sempre utile…
«Ma non solo utile: direi che è proprio fondamentale per crescere. Discutere con loro. Chiedere. Ascoltare. Guardare. Capire. Un giorno parlavo con Jeroen Dubbeldam, che considero come uno dei migliori cavalieri del mondo: lui mi diceva sì, Zenith adesso non è più lo stesso cavallo di quando abbiamo vinto il Campionato del Mondo e il Campionato d’Europa, però io sono contento lo stesso perché sento tutti gli altri miei cavalli in crescita… Ecco, in realtà questo nostro sport ci apre tante direzioni, si ramifica in tanti altri settori: quando un cavallo non è più in forma è giusto fargli fare un livello inferiore, piuttosto che continuare a spingere su un acceleratore che non farà accelerare proprio niente creando invece solo frustrazioni e problemi. Meglio vincere la gara più facile che prendere barriere in quella più difficile: sono tutti più contenti così».
I cavalli giovani: la soddisfazione che un cavaliere come lei prova nel sentirli crescere sotto la sella è forse paragonabile a quella di una grande vittoria?
«È uguale. Uguale. Andare in un due stelle per far fare a un cavallo di otto anni il suo primo Gran Premio… beh, è una gioia. L’importante è non saltare i preliminari. Mai. Con ogni cavallo. Bisogna fare un passo alla volta e saper aspettare. Non forzare. Non accelerare. Sapersi fermare quando è necessario. Anche perché io sono dell’opinione che i cavalli debbano saltare per il loro cavaliere. Se non si crea questo rapporto di intesa e di collaborazione e di complicità ci riduciamo a fare un altro sport, motociclismo probabilmente. Ma noi non facciamo motociclismo: noi montiamo a cavallo!».