Bologna, 25 settembre 2018 – Partiamo dal presupposto che il fallimento della squadra azzurra di salto ostacoli a Tryon è qualcosa che addolora profondamente tutti coloro i quali hanno a cuore le sorti del nostro sport. È un fallimento doloroso sotto tanti punti di vista. Perché speravamo – tutti speravamo – di poter finalmente agguantare questa benedetta/maledetta qualifica alle Olimpiadi. Perché avremmo preferito infinitamente di più fallire ma giocandocela fino in fondo, e non perdendo i pezzi per strada. Perché i cavalieri italiani non sono solo gli atleti che vanno in campo, ma anche le persone con le quali condividiamo sogni, speranze, aspettative, gioie, dolori, vittorie e sconfitte, con i quali dialoghiamo (al di là dei legami di amicizia personali, cioè) sui temi dello sport e della vita dei cavalli, e dunque ci fa soffrire il loro soffrire insieme al nostro soffrire. Perché immaginiamo bene cosa abbia voluto dire per Emanuele Gaudiano affrontare una stramazzata di viaggio come quello per poi fare un solo percorso e ritrovarsi con il proprio miglior cavallo infortunato. Perché capiamo perfettamente cosa abbia voluto dire per Luca Marziani entrare in campo con la certezza di nove percorsi netti in Coppa delle Nazioni durante un anno per lui meraviglioso, con la consapevolezza di avere gli occhi di tutta Italia sulle sue spalle, con la sicurezza di poter contare su un meccanismo ormai perfettamente rodato e oliato e funzionante… e poi sentire che il movimento in avanti del suo Tokyo si arresta come qualcosa che muore perdendo tutta la sua forza, come qualcosa che si esaurisce svuotandosi della propria vita e della propria energia vissute fin lì, trovandosi di fronte a un ostacolo che chiude definitivamente non solo il suo cammino ma anche quello della squadra e dunque di tutta quell’Italia spettatrice ansiosa e vorace di successo. Perché siamo perfettamente consapevoli di cosa abbia voluto dire per Piergiorgio Bucci finire due percorsi caratterizzati da momenti di azione stupenda ma intervallati da altri nei quali le barriere sono comunque cadute come se non ci fosse stata altra possibilità che quella: senza alternativa. Tutto questo è doloroso, prima ancora del risultato in sé e per sé: doloroso in maniera direttamente proporzionale alle gioie provate quando è stato il momento di gioire. Doloroso il pensiero di quello che deve aver pensato ciascuno dei nostri cavalieri nel momento del peggior pensiero. Voler bene – alle persone, allo sport, alla nostra comunità, ai nostri cavalli – vuol dire condividere e costruire solidarietà e vicinanza.
Ma voler bene non significa evitare di guardare la realtà, ovviamente. Anzi. Noi dobbiamo sforzarci di guardare la realtà con sguardo disincantato e più sereno possibile: per vedere le cose come sono, e non come vorremmo che fossero. Dobbiamo farlo noi: noi dirigenti, noi cavalieri, noi commentatori, noi addetti ai lavori, noi appassionati, noi tifosi. Noi, insomma. E quale è la realtà, la nostra realtà? Partiamo da un dato di fatto. Alberto Zorzi l’anno scorso è arrivato a un passo dal podio del Campionato d’Europa, Lorenzo de Luca quest’anno è arrivato a… due passi dal podio del Campionato del Mondo: nonostante la loro eccelsa bravura, nonostante le loro vittorie meravigliose, nonostante la quantità di cavalli formidabili messi a loro disposizione da scuderie che non hanno eguali al mondo, nonostante una competitività accertata e verificata e sperimentata (anche dai loro avversari!), nonostante posizioni di assoluta eccellenza nella computer list mondiale… nonostante tutto questo entrambi su quel podio non ci sono saliti mancandolo di pochissimo. Perché? La risposta è semplice: perché è difficile. Perché quel podio è come il vertice di una piramide: ci si sta in pochi lassù, e per starci c’è bisogno di una spinta dal basso pazzesca, una forza incessante e continua e inesauribile, un’alimentazione ininterrotta e un sostegno che non ceda mai nemmeno un solo secondo. E non è detto che basti. Lorenzo e Alberto sono ormai lì, al vertice di questa piramide e prima o poi su quel podio ci saliranno: è nelle cose. Accadrà, perché in loro c’è tutto. Ma perché possa accadere sarà indispensabile che questo tutto non venga loro mai meno. Quando una squadra arriva a un grande campionato internazionale – e il Campionato del Mondo è il più grande di tutti, più grande anche delle Olimpiadi – bisogna poter contare su una forza che non è quella sufficiente per affrontare e superare le difficoltà ‘normali’: deve essere una forza più forte. E deve convergere tutto nello stesso punto: tutte le forze di tutti, e tutto lo star bene di tutti, e tutto l’essere bravi di tutti, e tutta la qualità di tutti. Questo è ciò che produce l’eccellente risultato di una squadra: una sincronia perfetta. Noi dal 1972 (bronzo a squadre e oro individuale alle Olimpiadi di Monaco) a oggi abbiamo conquistato una sola medaglia internazionale: quella d’argento nel Campionato d’Europa di Windsor 2009. Una medaglia sola in quarantasei campionati internazionali tra Olimpiadi, Campionati del Mondo e Campionati d’Europa. Da quando è stato attivato il meccanismo di qualifica alle Olimpiadi, a partire da Atlanta 1996, noi ci siamo qualificati una sola volta, Atene 2004 (ad Atlanta siamo stati ripescati: la qualifica non l’avevamo ottenuta): abbiamo fallito Sydney 2000, Pechino 2008, Londra 2012, Rio de Janeiro 2016. E adesso siamo sulla buona strada per fallire anche Tokyo 2020. Speriamo di no, naturalmente, ma l’impresa è durissima: nel Campionato d’Europa 2019 si qualificheranno le tre migliori squadre che non siano tra quelle già qualificate a Tryon (le prime sei della classifica del Campionato del Mondo: cioè Stati Uniti, Svezia, Germania, Svizzera, Olanda e Australia) quindi ce la dovremo vedere con Irlanda, Gran Bretagna, Francia, Belgio, Spagna, Portogallo, Danimarca, Norvegia, solo per dire le più forti… per tre posti! Ci sarebbe poi anche l’ultimissima possibilità: risultare al primo posto tra le squadre non ancora qualificate in occasione della finale del circuito di Coppa delle Nazioni 2019 a Barcellona.
Ecco: oggi noi siamo questo. I dati, i numeri e le statistiche dicono che noi siamo questo. Ma così come non possiamo ignorare i numeri, non possiamo nemmeno evitare di considerare ciò che è altrettanto evidente: dalla fine del 2015 a oggi abbiamo ottenuto risultati che una volta – e per decenni – nemmeno ci sognavamo. Perché se è vero che dobbiamo guardare impietosamente alla realtà realmente vera, allora non dobbiamo nemmeno dimenticare da dove veniamo. Non dobbiamo dimenticare che per decenni abbiamo vissuto una specie di lunga notte medievale dalla quale sembrava che non saremmo mai più usciti per rivedere la luce. Non dobbiamo dimenticare con quanta frustrazione e rabbia e impotenza abbiamo contato le Coppe delle Nazioni mai vinte, soprattutto quella di Piazza di Siena: quando siamo stati il Paese che in Europa è riuscito a non vincere la Coppa delle Nazioni di casa per il più lungo periodo di tempo… e quando questo primato negativo ci pesava come la pietra al collo di chi cerca di non annegare… adesso non possiamo né dobbiamo fare finta che aver vinto Roma per due anni consecutivi non rappresenti un grandioso risultato, perché quei trentadue anni di astinenza li abbiamo vissuti come il segno della nostra debolezza, e contemporaneamente la sfilza di successi a Roma del quartetto d’Inzeo-Mancinelli-Orlandi ci è gravata sulle spalle con tutto il peso di un ricordo destinato a rimanere passato ineguagliabile. Tuttavia vincere a Dublino, vincere a Piazza di Siena, vincere a San Gallo, quasi vincere a Falsterbo e a Gijon e di nuovo a Dublino non vuol necessariamente dire essere forti abbastanza per presentarsi a Goteborg nel Campionato d’Europa e a Tryon nel Campionato del Mondo con una squadra in grado di essere protagonista. Vuol dire però avvicinarsi. Vuol dire essere a mezza strada tra il nulla che eravamo e il tutto che vorremmo diventare. Rimanendo peraltro sempre molto ben consapevoli del fatto che senza Lorenzo de Luca e Alberto Zorzi, e soprattutto senza le organizzazioni nelle quali i nostri due fuoriclasse sono inseriti, faremmo ancora una fatica bestiale a vincere quello che fino a oggi abbiamo vinto, poco o tanto che sia. Perché in Italia non esiste qualcosa di nemmeno lontanamente comparabile a quello che hanno creato Jan Tops a Valkenswaard e Stephan Conter a Bruxelles: e nessuno dei cavalieri italiani che vive e lavora in Italia può contare su più di un cavallo da Gran Premio, a prescindere dal suo valore di cavaliere. Uno solo dei quattro cavalli che Lorenzo de Luca ha montato mirabilmente ai massimi livelli internazionali nell’arco di meno di due anni – Armitages Boy, Ensor de Litrange, Halifax van het Kluizebos, Irenice Horta – basterebbe per essere il cavallo della vita di un qualsiasi ottimo cavaliere che risiede in Italia. Quando qualcuno di quei quattro cavalli si è fermato per infortunio o per necessità di riposo il nostro campione ha sempre potuto contare su un sostituto di pari livello che gli ha consentito di non scendere mai da quel vertice conquistato grazie alla sua formidabile bravura di cavaliere. E se anche quest’anno abbiamo vinto a Roma pur senza le nostre due stelle non dobbiamo illuderci che ciò sia sempre possibile. Nel 2018 per la vita della nostra squadra abbiamo dovuto fare a meno di cavalli come Cornetto, come Ares, come Casallo Z, come Armitages Boy, come Ensor de Litrange, come Fair Light van het Heike, come Ego van Orti: tutti – tranne Ares e Casallo – compagni di gare di Alberto Zorzi e di Lorenzo de Luca. In ogni caso quale Paese potrebbe rinunciare a un parco cavalli di tale potenza senza risentirne?
Ovviamente le strategie tecniche e organizzative per la gestione della squadra e della stagione agonistica sono elementi indispensabili per il buon esito di qualunque impresa sportiva. Ma guardiamo gli ultimi due anni, il 2017 e il 2018: alla guida del salto ostacoli azzurro abbiamo avuto Roberto Arioldi nel 2017 e Duccio Bartalucci nel 2018, uomini di cavalli e tecnici capaci ed esperti e navigati. Il risultato per entrambi è stato identico: prestazioni belle e convincenti in Coppa delle Nazioni, entusiasmo e apprezzamento pienamente giustificati per il loro eccellente lavoro, fallimento della squadra nel campionato internazionale dell’anno, quello d’Europa nel 2017 a Goteborg e quello del mondo a Tryon nel 2018. Grandi e infuocate discussioni nel mondo degli opinionisti e degli addetti ai lavori nel sostenere chi l’operato dell’uno e chi l’operato dell’altro: ma alla fine il risultato del campo è stato praticamente identico per entrambi (la classifica di Goteborg è stata di certo meno brutta di quella di Tryon, ma sul piano sostanziale poco cambia) con anche un cavallo infortunato per parte e con una punta di eccellenza rappresentata una volta da Alberto Zorzi e l’altra da Lorenzo de Luca.
E quindi? Quindi l’ovvia considerazione finale di tutta questa serie di riflessioni non può che essere una: cavalli. È questo che fa davvero la differenza, non Roberto Arioldi o Duccio Bartalucci o Mario Rossi…. È lì che si deve concentrare lo sforzo della politica sia pubblica sia privata, sia istituzionale sia individuale. È lì che devono andare le risorse – non solo quelle economiche: anche quelle diciamo intellettuali e gestionali – dell’amministrazione dello sport, e dunque della Fise ma anche di tutte le altre figure che nello sport operano a vario titolo. Dobbiamo assolutamente potenziare e migliorare tutto il meccanismo che genera la produzione di cavalli sportivi, sia sotto il profilo del commercio sia sotto quello dell’allevamento sia sotto quello della proprietà. Ne abbiamo parlato per anni, di tutto questo: e cosa è mai stato fatto? Molto poco. Migliorare in tale ambito significa mettere in atto programmi di lungo periodo e poi sostenerli con coerenza e determinazione, perché i tempi per tutto ciò sono lunghi, molto lunghi. Si possono avere i cavalieri migliori e più bravi del mondo, e i tecnici migliori e più bravi del mondo: ma senza cavalli anche i più bravi del mondo sia a piedi sia in sella produrranno risultati mediocri. È la scoperta dell’acqua calda, certo: ma la nostra acqua continua a essere tiepidina.