Bologna, giovedì 8 novembre 2018 – «Lo sport è stato fondamentale. Mi ha dato motivazioni e forza inesauribili. E quindi proprio durante questo periodo così particolare sono riuscito a fare quello che avevo sempre sognato, senza mai riuscirci in precedenza: la squadra azzurra, le Coppe delle Nazioni… un sogno. Davvero un sogno. E… proprio durante questo periodo».
Un periodo molto particolare che inizia con una data precisa: lunedì 9 ottobre 2017.
«Sì. Quel giorno sono andato a fare dei controlli: da un po’ di tempo mi sentivo stanco, molto stanco. E poi mi era nata sul collo una specie di pallina che io inizialmente ho ritenuto fosse una cisti sebacea, anche perché tempo prima mi avevano operato per toglierne una… Ma non era una cisti sebacea: era invece il sintomo chiaro della malattia. Il 12 ottobre mi viene comunicato l’esito degli esami: linfoma non Hodgkin, tumore maligno del sistema linfatico. All’ultimo stadio».
Uno shock terribile…
«Una doccia fredda. Gelida, direi. Però devo essere onesto: non mi sono mai perso completamente d’animo. Nemmeno i primissimi momenti. Detto ciò ovviamente lo sconforto è stato devastante. E anche la paura: posso ammettere in tutta sincerità di aver passato cento notti senza dormire, o facendolo al massimo per due o tre ore… Cento notti perché quello è stato l’intervallo di tempo trascorso tra la notizia della malattia e il momento in cui nel mese di gennaio mi hanno detto che la terapia stava funzionando».
Quale terapia le hanno proposto?
«Chemioterapia. Molto aggressiva perché ero all’ultimo stadio della malattia».
Quindi molto pesante da sopportare?
«Molto. Si perdono le forze, il corpo muta, si perdono i capelli, non ci si guarda più allo specchio, tutto si scarica sull’addome, non si riesce più a chiudere i pantaloni. Detto questo capisco chi rifiuta di sottoporsi alla chemio, ma non condivido assolutamente tale scelta: noi abbiamo il dovere di salvaguardare la nostra vita che è il bene più prezioso di cui disponiamo, dobbiamo combattere per difenderla, per noi, per i nostri familiari, per i nostri figli. Abbiamo il dovere di farlo».
Tutto questo a Napoli?
«No, a Bologna. In un ospedale pubblico. Ecco, questo tengo molto a dirlo. Ho trovato delle persone meravigliose, in un ospedale che lavora benissimo, senza alcun trattamento di favore, con un funzionamento eccellente, un sistema eccezionale per cui chiamano a casa per tutte le comunicazioni, per confermare gli appuntamenti per le terapie o comunicare gli eventuali ritardi. Sono stato seguito da un medico bravissimo al quale sarò grato per tutta la vita. La verità è che in Italia abbiamo delle grandissime eccellenze in tutti i settori, ma il problema è la fuga dei cervelli: li facciamo scappare via per mille motivi, per mancanza di soddisfazioni, perché siamo un Paese nel quale si va avanti con il nepotismo e senza quel rispetto e quella meritocrazia che invece dovrebbero esserci. Tuttavia nel settore della sanità bisogna riconoscere che il pubblico funziona meglio del privato».
Probabilmente la gente potrebbe pensare che un Grimaldi…
«Può permettersi di pagare per le cure migliori, super scienziati, America, strutture sanitarie super esclusive? Sì, l’ho pensato anche io: certamente io ho la fortuna di appartenere a una famiglia che ha disponibilità economiche, vivo nel benessere, ma qui non c’entrano ricchezza o povertà: io sono stato curato in un ospedale pubblico e non privato, e mi ha seguito in Italia un medico italiano, non negli Stati Uniti o chissà dove un medico straniero. Io sono orgoglioso di questo, dell’eccellenza del mio Paese».
Quando ha iniziato la chemioterapia?
«Subito, a metà ottobre, il tempo di organizzare tutte le cose. Ero molto agitato, ma altrettanto consapevole del percorso che avrei dovuto affrontare».
Sarà stata dura anche per la sua famiglia…
«Cercavo forza nei miei figli. Ecco, i momenti più difficili in assoluto sono state le sere di questi cento giorni, i giorni compresi tra l’inizio della terapia e il momento in cui mi è stato detto che stava funzionando. Mettere a letto i miei figli quelle cento sere è stato il momento più difficile… Mettevo a letto il primo, poi il secondo, poi il terzo… e cercavo di trasferire quanti più messaggi possibili, l’idea era quella per cui io in quei momenti dovevo trasferire loro qualcosa. Messa a letto la più piccola iniziava il momento più duro… La verità è che tutti noi facciamo sempre il bilancio della giornata, e lo facciamo quando mettiamo la testa sul cuscino: in quel momento pensi a cosa hai fatto e a cosa non hai fatto, a cosa dovrai fare e a cosa non dovrai fare. Ma io per il mio domani ero nell’incertezza e nell’angoscia totali… E quindi non ho mai dormito più di due o tre ore per ciascuna di quelle cento notti. Quelli sono stati i momenti più difficili e più duri. Oggi, a distanza di tempo, posso però dire che durante quest’ultimo anno mi sono legato ancora di più ai miei figli, più di quanto già lo fossi: anche perché chi mai va a pensare che a 32 anni gli possa succedere una cosa del genere… ma succede, e allora quello che si può vivere lo si vive in modo diverso da prima».
Come ha fatto a resistere mentalmente e fisicamente a tutto questo? Come si fa?
«La mente è stata l’elemento trainante. Però la cosa più complicata è stata stabilire il giusto equilibrio tra mente e corpo: perché i pensieri viaggiavano ancora, anzi a velocità doppia rispetto al normale, ma era difficile trovare il punto di intersezione con un fisico che invece stava cedendo».
Lei ha continuato a montare a cavallo…
«Sì, salvo il primo mese e mezzo. La storia in un certo senso è divertente. A inizio novembre vado a vedere i miei cavalli. Mi porto dietro uno dei miei amici, uno dei ragazzi giovani che sono sempre con me e che mi sono molto legati, e andiamo. Gli dico tu monti e io ti guardo. Lui monta il primo cavallo e tutto bene. Poi monta Hurricaine, cavallo molto sensibile. Dopo un minuto il cavallo è in piedi, tutto sudato, il ragazzo mortificato di non riuscire a montarlo. Io gli dico dai smonta: avevo i jeans… alla fine avevo le fiaccature sanguinanti sulle gambe perché mi ha preso l’entusiasmo e mi sono messo a fare anche qualche salto… A quel punto sapevo che mio fratello Guido era in partenza per Cattolica: dico di nascosto ai miei groom chiamate subito, iscrivete il cavallo in concorso, non dite niente a mio fratello, non dite niente a nessuno e portate il cavallo a Cattolica. Dopodiché sono riuscito a convincere mio fratello, e lui da quel momento è diventato il mio complice… ».
Perché lei non avrebbe potuto montare, ovviamente…
«Sì, non sarei potuto andare in concorso. Avendo una malattia del sangue, ed essendo le ossa piene di sangue, se fossi caduto mi sarei rotto subito. E se mi fossi rotto avrei dovuto sospendere la chemio, quindi il rischio era altissimo. Ma sentivo una gioia che non si può sapere, in quei momenti mi sembrava aria vitale».
Quindi lei è andato in concorso… di nascosto?
«Sì, certo. Con la complicità di Guido. Durante la settimana ovviamente non montavo. Mia mamma e mio papà non lo sapevano, già stavano a un livello di tensione altissimo… Mia moglie lo sapeva, non era d’accordo ma accettava: però non ha voluto vedere nemmeno una gara… Guido è il mio migliore amico. E’ stato mio complice non senza difficoltà: c’era ovviamente chi gli diceva di non farlo, che sarebbe stato un rischio pazzesco… ma lui mi vedeva così felice che ha deciso di andare controtendenza!».
Dunque Cattolica.
«Sì, vado a fare questo concorso nazionale. Nella prima gara faccio un errore, poi due nel Gran Premio piccolo, poi zero nella 135… Faccio fatica, ma vedo che ce la posso fare. Ovviamente il cavallo girava alla corda, io salivo in campo prova per fare un salto prima di andare dentro, stavo in sella il meno possibile. Ho finito quel concorso pieno di gioia. Poi dopo avrei avuto la successiva chemio… ».
Quante ne ha fatte in totale?
«Una decina, più la rachicentesi e le varie terapie aggiuntive. Allora parlo con il mio medico. Lo convinco: gli dico guarda che il rischio è minimo perché io ho un cavallo bravo e affidabile, non mi metto in situazioni difficili, faccio solo un salto prima di entrare e faccio solo il percorso della gara, sessanta secondi e fine, dovrei essere proprio super sfortunato… Ci mettiamo d’accordo: il fatto è che lui mi ha visto davvero felice… Così parto molto motivato per andare a Vermezzo per il Milano Winter Show: faccio solo due gare, Gran Premio compreso, con buone prestazioni tutto sommato. E poi vado a fare la chemio numero cinque: ma comincio a perdere tutti i capelli, e comincio a sentire una stanchezza tremenda… ».
Più del solito?
«Molto più del solito. Il fatto è che avevo un disperato bisogno di obiettivi continui, a breve termine, che mi distraessero, che tra una terapia e l’altra mi facessero pensare a qualcosa di bello, alla gara… io poi sono super competitivo in tutto, ho uno spirito naturalmente agonistico. La chemio l’ho fatta ogni tre settimane: subito dopo la terapia inizia il peggio possibile, che va via via migliorando fino a raggiungere la fine della terza settimana, quando si è pronti per una nuova terapia. Quindi io mi organizzavo le gare sempre nel terzo fine settimana dalla chemio: ho rotto le scatole a tutti in ospedale per poter fare la terapia il lunedì… ! Insomma, decido di andare a Bologna per fare il Memorial Dalla Chiesa. Faccio la gara del primo giorno per poi puntare diretto sul Gran Premio: ma prima dell’ultimo giorno vado a Milano con mia moglie Veronica per vedere i suoi genitori. Mio padre intanto si era un po’ insospettito, così da casa dei genitori di Veronica gli ho mandato un sacco di fotografie… Il problema è che la domenica ho fatto zero nel percorso base del GP e un sacco di amici hanno mandato dei messaggi di felicitazioni a mio padre, che così ha scoperto tutto: e mi ha mandato un messaggio prima di tutto dandomi del pazzo furioso, e poi aggiungendo… hai fatto benissimo! Però non devi rischiare, devi capire che è un momento particolare, mi ha detto. Ma io gli ho risposto: papà, come si fa a negare a sé stessi una cosa che ti fa brillare gli occhi… ».
E’ stato più o meno in questo periodo che i tecnici azzurri l’hanno avvicinata per programmare qualcosa?
«Sì, Duccio Bartalucci mi ha detto tieniti pronto, il tuo cavallo mi piace, potremmo considerare di fare qualche Coppa delle Nazioni… Lui non sapeva nulla della mia malattia: ovviamente il suo interessamento mi ha dato una carica pazzesca».
Non si sentiva un po’ frustrato dal non poter essere come avrebbe voluto?
«Certo, ma adesso arriva il peggio… e anche il meglio. Perché in gennaio i medici mi danno la bellissima notizia che la terapia sta funzionando: però il fisico mi abbandona completamente. Sono comunque andato alla riunione con i tecnici federali Duccio Bartalucci e Marco Porro, quella con tutti i cavalieri di interesse nazionale. Ci viene detto che sarebbe stato obbligatorio partecipare al Toscana Tour per seguire il programma di selezione. Ma a marzo io ho sentito il mio corpo completamente ko».
Più di quanto non fosse già accaduto?
«Oh sì, molto di più. La mattina facevo una fatica tremenda ad alzarmi e a fare le cose normali. Figuriamoci montare a cavallo… Se prima riuscivo a reggere almeno il tempo del percorso, adesso arrivavo sì e no a metà del tracciato. Non avevo la respirazione: sembravo un uomo anziano totalmente fuori forma. Da metà percorso in poi non ce la facevo più, finivo attaccato alla criniera del mio cavallo. Per fortuna Hurricaine è stato un compagno eccezionale, sembrava aver capito la mia difficoltà e ci ha pensato sempre lui a portarmi fino in fondo senza mai abbandonarmi una sola volta. Devo dire che è stato fondamentale il mio amico Omar Bonomelli: il cavallo lo avevo affidato a lui, e lui lo ha mantenuto in lavoro al meglio, io proprio non riuscivo nemmeno a guidarlo».
Ma a quel punto Bartalucci e Porro sapevano?
«Sì, però hanno avuto fiducia in me. Sono stati bravissimi, hanno avuto una grande delicatezza nei miei confronti, all’inizio non mi hanno chiesto nulla pur avendo capito come stavano andando le cose. Poi a un certo punto ne abbiamo parlato, e io ho detto loro che avrei potuto solo migliorare. Così mi è stata data l’opportunità di fare lo Csio di Roma a maggio, dove ho fatto qualche buona gara: a quel punto loro decidono di mandarmi con la squadra azzurra ad Atene in giugno. Io pensavo di essere il quinto, cioè la riserva per la Coppa delle Nazioni, ma in realtà il criterio adottato è stato del tutto meritocratico: i migliori quattro del Gran Premio avrebbero fatto al Coppa delle Nazioni. E io sono stato tra i quattro migliori».
In quel momento come si sentiva fisicamente?
«Cominciavo a recuperare. Non avevo da fare più terapie quindi ero al massimo del peggio, diciamo, però l’idea di aver smesso mi dava una grande energia. Il morale era altissimo e in quel momento mi consideravo pulito».
Cioè le avevano detto che era guarito?
«No, ovviamente. Per la certezza della guarigione ci vogliono almeno cinque anni. Dopo il percorso di terapia c’è una sospensione, un periodo durante il quale si fanno le indagini necessarie per capire se ci sono ancora cellule malate nell’organismo: e in me non ce n’erano più, ma è vero che avevo fatto una terapia forte, molto aggressiva. La grande domanda è: cosa succede adesso che abbiamo eliminato tutto? Ci si rivede tra alcuni mesi e se le cellule maligne si sono riprodotte siamo punto e a capo, vuol dire che non è stata eliminata la matrice. Vedremo… Comunque in quel momento non avevo alcuna voglia di pensare a un’eventualità simile».
Poi ad Atene è successo che…
«Sì, esatto, una cosa meravigliosa. Il solo fatto di esserci era magnifico, essere stato tra i migliori nel Gran Premio e quindi essere titolare in squadra favoloso, ma… mai avrei pensato che avremmo vinto! E invece abbiamo vinto… Abbiamo vinto la Coppa delle Nazioni!».
Beh, sembra una favola…
«Sì, morale a mille. Poi andiamo anche in Bulgaria, ci classifichiamo al secondo posto, poi vado a Megeve… ».
Intanto si stava avvicinando la data del primo controllo.
«Eh sì, una grande tensione man mano che mi ci avvicinavo. Sarebbe stato il lunedì dopo la fine del concorso di Bagnaia, il 17 settembre. Io ho voluto con tutte le mie forze fare il concorso di Bagnaia proprio per avere un motivo di grande concentrazione e quindi di distrazione da quello che mi avrebbe atteso quel lunedì».
Quindi da Bagnaia è poi andato a Bologna.
«Sarebbe stato logico fare così: in realtà sono rientrato a Napoli. Non volevo dormire a Bologna, non volevo trascorrere quella notte di ansia lontano da casa, volevo stare con i miei figli e con mia moglie. Sono quindi tornato a Napoli per poi ripartire il lunedì mattina alle cinque per Bologna. Con mia madre e mia moglie. Mia mamma non volevo che venisse, ma non c’è stato verso… E Veronica… beh, lei è stata meravigliosa in tutto. Ma fin dal principio della nostra vita insieme: ha lasciato Milano, la sua famiglia e i suoi amici per venire a Napoli… Poi mi è stata al fianco con il sorriso sulle labbra ogni mattina all’inizio della giornata, nonostante abbia visto così da vicino le varie fasi della malattia e anche del mio stato d’animo. E’ stata una compagna eccezionale: io mi sono innamorato di lei ancora di più durante tutta questa vicenda».
E quel lunedì poi?
«Tutto bene. Tutto bene… Una gioia enorme. Prossimo esame a sei mesi di distanza, ma intanto tutto bene».
Certo è quasi incredibile che per lei si sia concentrato tutto il male e tutto il bene nello stesso momento: la malattia e le più grandi soddisfazioni sportive della sua carriera…
«Una cosa la posso dire con certezza. Adesso ho una concentrazione che non avevo mai avuto a cavallo. E’ come se fino a oggi io avessi montato con un macigno sulla schiena. Senza forze. Andando avanti solo con gli elementi della testa e del pensiero, e senza quelli del corpo. Adesso che sto un po’ meglio ho il doppio di quello che non avevo prima: ho la concentrazione, ho il fisico che finalmente mi segue, e soprattutto un entusiasmo che ho sempre avuto, ma che adesso è raddoppiato».
Però lei non monta durante la settimana: non le manca la vita in scuderia?
«Da morire… eccome. Ma il mio lavoro non me lo permette. Io sono direttore commerciale di un gruppo con 14.800 persone, la Grimaldi appunto, più tutte le varie compagnie figlie. E anche il mio lavoro mi piace tantissimo: io sono innamorato del mio lavoro. In realtà anche prima della malattia io non ho mai montato durante la settimana: la differenza è che prima durante i fine settimana montavo tutti i cavalli che potevo, adesso invece mi devo comunque contenere, non ne monto mai più due, massimo tre a concorso. Devo gestirmi bene, sono consapevole di essere più debole, più vulnerabile».
Suo padre è una figura importante per la sua vita.
«Certo. Tra l’altro è grazie a lui che mi sono appassionato allo sport equestre e ai cavalli. Lui e mio fratello montavano: a me non piaceva tantissimo inizialmente, ma per emulazione l’ho fatto anche io. Ho avuto la fortuna di avere un primo cavallo molto bravo e quindi grazie a lui mi sono sentito bravo a mia volta… Poi era diventato un motivo per stare tutti insieme: facevamo delle gare tra noi, per gioco, come se fossimo in concorso: il sabato la potenza, la domenica il Gran Premio, facevamo anche lo scambio dei cavalli… Era bellissimo, un momento di svago e di condivisione. Detto questo, mio padre con me è stato particolarmente duro: se mi comportavo male mi lasciava per strada… io vestito da cavallo, ma lui mi mollava per strada e io per tornare a casa ho dovuto prendere la Cumana un sacco di volte… ma sono sempre stato un tipo abbastanza tosto a mia volta. In mio padre ho avuto un riferimento importantissimo, lui per me significa tanto: è un po’ il mio modello di vita, il mio idolo… Non ho mai incontrato qualcuno che avesse la sua visione, la sua lungimiranza: è come giocare a scacchi con uno che sta tre o quattro mosse avanti. Lui è una specie di Steve Jobs del nostro settore, il settore della navigazione: il gruppo Grimaldi è stato fondato nel 1947 da mio nonno Guido, ma è stato mio padre che ha avuto la grande visione dell’attività. Quelle che oggi convenzionalmente si definiscono le autostrade del mare sono nate grazie a lui. Un uomo anche duro quando ha dovuto esserlo sia sul lavoro sia in famiglia. Però la sua durezza mi è servita, mi ha temprato e mi ha permesso di essere nella condizione di gestire un contraccolpo inaspettato, mi ha permesso di essere pronto… ».
Con il senno di poi anche la passione per i cavalli ereditata da lui si è rivelata oggi uno strumento fondamentale per lei.
«L’importante è avere una passione cui dedicarsi. Per me sono stati i cavalli, e mi rendo conto che si tratta di un grandissimo privilegio. La testa deve svagarsi, o meglio deve concentrarsi su qualcosa che tenga lontani i pensieri che altrimenti stanno sempre lì, sulla malattia, sulla vita, sulla morte… Io montando a cavallo smettevo e smetto di pensare a tutto questo. Anche nei momenti peggiori: mentre ero in sella pensavo solo a montare a cavallo. Prima e dopo ovviamente no, e quello era il brutto, ma una volta in sella non esisteva nient’altro: solo io e il mio cavallo».
Oggi lei come vive il rapporto con quello che le è successo: ne parla, condivide le sue riflessioni e i suoi pensieri?
«Assolutamente sì. Lo faccio, eccome, perché penso che possa essere utile non solo a me stesso ma anche al mio prossimo. Anzi, a un certo punto mi è stata segnalata la possibilità di andare all’ospedale Posillipo di Napoli per parlare di tutto questo con i bambini e i ragazzi ammalati di tumore. Mi è sembrata un’ottima idea, così mi sono trovato a colloquio con la psicologa che mi ha spiegato come funzionano le cose e mi ha fatto vedere la struttura. Però mi sembrava di capire che lei avesse un po’ di difficoltà nel dirmi le cose chiaramente… Quello che lei tentava di farmi capire era questo: io in quel momento ero ancora sotto cura e, detta brutalmente, se le terapie non avessero funzionato e io… non mi fossi più presentato lì che messaggio sarebbe giunto ai ragazzi? In effetti un ragionamento logico, ma quando l’ho compreso ho detto alla psicologa: dottoressa, lei non ha capito, io guarisco… si fidi di me! Poveretta, era molto in imbarazzo… giustamente, del resto, il mio non poteva essere un ragionamento scientifico. Così abbiamo comunque aspettato la fine del ciclo di terapie prima di passare all’azione».
Anche questa intervista quindi la trova… giusta e utile?
«Certo, eccome. Bisogna parlare il più possibile di una malattia che ovviamente c’è, esiste, è molto presente nella vita di tutti noi, però si può combattere, si può vincere, al limite ci si può convivere. C’è ancora una percentuale troppo alta di persone che si deprimono, e deprimersi è umano ma non serve. Dopo quel mio primo mese e mezzo io mi sono costretto a fare un passaggio mentale che mi ha permesso di reagire, un pensiero che potrebbe sembrare un controsenso pazzesco al limite del paradossale… Cioè a un certo punto ho quasi accettato il peggio dentro me stesso e mi sono detto: se il peggio è lì, a breve, allora la follia è vivere nella paura il poco tempo che ho a disposizione. Se comincio a piangere e a disperarmi come trascorro il poco tempo che mi resta da vivere? In economia si chiama l’ultima dose di un bene, l’utilità marginale, quella più preziosa, che costa di più e che vale di più: la devi spendere o investire al meglio. Quindi quando ho accettato il peggio, ho in realtà deciso di vivere al meglio il tempo che mi sarebbe rimasto. Non andavo tutti i giorni in ufficio perché non ce la facevo, ma facevo conferenze, andavo a parlare al mio team, seguivo comunque da lontano quello che succedeva, gestivo il mio corpo per fare delle trasferte, o per andare a fare una gara. Dosavo le energie salvaguardandole per poi fare quello che davvero mi piaceva fare».
Beh, ci vuole una forza d’animo non comune…
«La medicina ha fatto passi da gigante e altrettanti continuerà a farne. Bisogna avere fiducia nella medicina e nella ricerca, e mettersi a disposizione per combattere, per sottoporsi al combattimento senza cedere. Questo come prima cosa. In secondo luogo bisogna mettersi nella condizione di poter fare bene quello che piace e stabilire una priorità. La priorità è fare quello che piace: non fino a dove non ce la si può fare, ma fino a dove ce la si fa. Facendolo però».