Roma, 7 aprile 2018 – Che non sarebbe stata una fragile signorina-di-buona-famiglia come tante altre, lo precisò subito: nata femmina contro tutte le tradizioni degli avi paterni (sempre due figli, e sempre rigorosamente maschi) tanto da far esclamare al padre sbalordito di fronte all’inequivocabile pargoletta “Ma dì…..è possibile?”, prese in contropiede i genitori che non avevano preparato liste di nomi adatti ad una bimba. Pensò la madrina di battesimo a trovarlo, declinando al femminile il suo casato: e venne battezzata Armanda.
Una vera crudeltà, ma giustizia fu fatta ed anche in modo sbrigativo: la madrina fu falciata da una macchina mentre traversava la strada appena uscita dalla villa, al termine della cerimonia.
La piccola era ancora piccola, ma indifesa nemmeno allora: e Mady, esclamativa e travolgente, non è mai stata chiamata in modo diverso.
La eravamo andati a trovare trovare ad Acquapendente anni fa, forse più una decina ormai: ma non crediamo sia cambiata molto, nel frattempo.
La casa era nascosta in mezzo alle querce ed ai cipressi delle colline etrusche, lei immersa in un nugolo di nipoti, amici e figli degli amici, un incantevole intreccio di delicatezze ottocentesche e solidità incrollabili, di decisioni coraggiose e tenerezze garbate, una donna capace di apparecchiare per masnade di ospiti con una tovaglia del corredo (ricamata a punto ombra con le sue mani, sotto gli occhi delle suore in collegio) come di mandare avanti un allevamento con venti fattrici e conseguenti puledri; capace di allevare bei cavalli, brave figliole, e nipotini adorabili.
E tutti con lo stesso metodo: rispettandoli.
Mady, perché hai cominciato a tenere cavalli?
“Per un complesso di inferiorità: da ragazzina montavo alla Farnesina poi dai D’Angelo, ma sempre e soltanto cavalli della scuola. Noi abitavamo ai Parioli, i miei mettevano i bastoni tra le ruote in mille modi per smorzare i miei entusiasmi equestri e per andare in maneggio dovevo farmi quattro chilometri a piedi e ritorno. Una bella faticaccia a dieci anni, e per quelli col cavallo di proprietà ed il groom invece era tutto così facile. Avevo quattro sogni, per la mia vita: fare tanti figli, abitare in campagna, avere un cavallo mio, e vincere le Olimpiadi anche a costo di morire d’infarto vedendo il tricolore salire in alto, con l’Inno di Mameli in sottofondo. Dopo che erano nate le bambine (quattro in sei anni) mi sono trasferita da Roma qui in campagna, e il mio primo “cavallo” è arrivato grazie a loro. Durante uno stage di equitazione che stavano facendo a Torrimpietra mi telefona la più grande, Francesca: “Mamma vieni, qui c’è un pony che muore di fame e devi salvarlo”. Il pony era veramente allo stremo, in condizioni vergognose ma una volta a casa lo rimettemmo in forze. Rimase con noi per trent’anni, era di un’intelligenza umana e vinse anche qualche categoria a Piazza di Siena. Si chiamava Primo, pony d’Esperia“.
E poi?
“E poi niente, un giorno mi sono accorta che in casa mancava il latte. Scendo in paese per comprarlo, e vedo in attesa dal benzinaio un camioncino di quelli che trasportano il bestiame qui in campagna con su un cavallo. Conosco il proprietario, mi fermo a chiedergli che fa e quello mi dice “Trasporto la Zanicchi al macello, la voglio vedere morire questa bestia”. La Iva Zanicchi era una puledra di due anni e mezzo, Maremmana amarissima, magnifica come modello ma distrutta psicologicamente da un lavoro troppo precoce e pesante, non tollerava più gli uomini. Lui voleva un milione per la cavalla, io in tasca avevo un assegno da un milione regalo di papà, glielo do e mi faccio scaricare l’Iva Zanicchi a casa. Metto la cavalla alla corda, piano piano, non fa manco una piega. Prendo mia figlia, gliela metto sopra, la cavalla ancora bravissima. In seguito l’abbiamo portata all’ippodromo dove la mattina la bambina (otto anni) usciva con lei assieme ai puledri da galoppo che facevano la loro sgambata. Ci siamo divertite molto, Francesca montava in corsa coi mezzosangue ed era uno spettacolo vedere questa ragazzina cosi leggera, con la cavalla a mille in mezzo ai fantini di professione, è stato veramente bello. Poi mio marito se n’è accorto, e abbiamo dovuto smettere col galoppo“.
Quando hai cominciato ad allevare puledri?
“Iva Zanicchi aveva un bel caratterino, l’abbiamo fatta coprire per vedere se si addolciva un poco ed è nata Orchidea, nel 1982. Una bella puledra, ma nessun cavaliere importante la voleva, io non mi davo pace e un bel giorno ho telefonato a Gianni Marfoli (uno dei migliori coi giovani cavalli, allora) che non conoscevo nemmeno proponendogli la cavalla, precisando che non avevo una lira da dargli ma assicurandogli che non gliela avrei tolta per venderla. Lui ha accettato, ed Orchidea è diventata la seconda cavalla italiana in assoluto per somme vinte in gara. Perché il cavaliere se è tranquillo, se sa che gli lascerai il cavallo non ha bisogno di sfotterlo, rovinarlo per cavargli fuori quel po’ di risultati immediati. E’ stato il periodo migliore della mia vita: giravamo per concorsi dormendo con le brandine dentro il van dei cavalli e cucinando sul fornelletto da campeggio. La sera ci si fermava intorno al fuoco seduti sulle balle di paglia per parlare della giornata, degli errori fatti, dei problemi risolti. C’era nei racconti dell’immediato dopo gara un modo di imparare che adesso s’è perso: ora dopo il concorso tutti prendono la motoretta e vanno in albergo, non ci si parla più. Poi con Orchidea ci siamo ingasati, un altro puledro, e un altro ancora…con la Vizzini siamo arrivate a venti cavalli e poi ci siamo chieste che ne facciamo? Perché non ho mai fatto puledri per venderli, erano come figli, mi sono concessa il lusso di scegliere a chi darli. E poi al massimo i puledri li “svendi”, con tutti i costi che ci sono e la politica federale italiana non puoi sperare di fare altro che svenderli”.
Quale dei tuoi cavalli ti occupa più posto degli altri, nel cuore?
“Don Albert Bon dell’Orchidea: lui appena nato si è tirato su in piedi bene in appiombi, mi ha guardato e ha detto “Perché io, mmmmmm’bèh!!!….”. Aveva questa sicurezza dentro già da subito. Eppure è stato lui la vittima della più grossa delusione, l’ultima di tante e ho smesso di allevare. In Italia chi si alleva un cavallo da sé e lo vuol far montare a un cavaliere vero, di quelli che rispettano i cavalli non ha futuro, non lubrifica l’organizzazione”.
Se oggi avessi un puledro da mettere in lavoro, che cavaliere vorresti per lui?
“Forse, ma dico forse Michel Robert. Ha una classe infinita, è un signore sia a piedi che a cavallo, come il nostro Filippo Moyerson al quale avevo affidato Don Bito, ancora integro e perfetto a venti anni suonati. Ma Michel è francese, non italiano. Una volta Sloothak, che aveva seguito in tribuna il racconto dei miei sogni olimpici e l’indecisione sul cavaliere a cui affidare Don Albert Bon , ridendo disse: “dallo a me” ma gli risposi di no. Che gusto ci sarebbe stato a morire d’infarto alle Olimpiadi …ascoltando l’inno tedesco?”.
Ecco, questa è la Mady che conosco io.