Bologna, 5 dicembre 2018 – Ettore Maurizzi è scomparso nel 2011, ma ha lasciato una traccia tra le gente di cavalli che non sarà facile cancellare: simpatia, umanità, professionalità, competenza e intraprendenza erano le sue cifre, e chiunque abbia vissuto nel mondo dell’equitazione italiana ha conosciuto il suo sorriso – e l’ospitalità della roulotte targata Pegus.
Venerdì 7 dicembre 2018 il premio nr.6 del XXVII Master d’Italia Indoor di salto ostacoli Memorial Dalla Chiesa, prima prova dello Small Tour sarà intitolato proprio a lui: nell’attesa, ci facciamo raccontare dal figlio Omer (front-man ufficiale della famiglia Maurizzi) la storia vera di questo punto di incontro tradizionale e molto amato dagli addetti ai lavori di ogni disciplina equestre.
Signor Maurizzi, quando è cominciata la vostra storia?
«Nel 1959, quando mio padre la sua attività a San Lazzaro di Savena. Avviò il primo negozio legato all’agricoltura: adesso San Lazzaro è una cittadina moderna ma allora c’erano praticamente solo allevamenti, agricoltori e bestiame. Nel 1963 aprì lo stabilimento per la produzione dei mangimi destinati agli animali da reddito e nel 1971 incontrò il marchese Fabio Mangilli, preparatore tecnico della nazionale di completo (quella che vinse l’oro a Tokio nel 1964 con Mauro Checcoli, Paolo Angioni, Alessandro Argenton e Giuseppe Ravano, n.d.r.) che gli presentò la famiglia Stone di Dublino. Avevano inventato il marchio Pegus e commercializzavano una gamma di prodotti specifici per i cavalli: mio padre cominciò la collaborazione con loro e portava i mangimi alle varie manifestazioni ippiche. Arrivava con una roulotte al traino, metteva su il tendalino e via».
Come ha fatto quel tendalino a diventare un punto d’incontro così speciale?
«C’era un problema: a mezzogiorno avrebbe dovuto ritirare ogni volta tutto, chiudere per un paio d’ore e poi risistemare ogni cosa…trovava più pratico rimanere lì e farsi un piatto di maccheroni e due salsicce su un fornello da campo a gas. Così arrivavano prima uno, poi l’altro a dare una forchettata e fare due chiacchiere. Diventò un punto di riferimento per tutti: giornalisti, groom, cavalieri, proprietari. Allora non c’erano bar e ristoranti ai concorsi, il nostro era una sorta di salvataggio, un punto di ristoro per gli addetti ai lavori. Nasce tutto da lì, poi è cambiato anche il mondo dei concorsi: adesso hanno tutti ristorante, bar e quant’altro e un po’ perché i proprietari non volevano subire una concorrenza sleale, un po’ perché era sempre più difficile portare la roulotte e soddisfare i requisiti di sicurezza degli eventi sportivi abbiamo cambiato e siamo passati agli stand fissi e alle verandine, offrendo piatti freddi al posto della storica pasta col ragù dei bei tempi andati».
Qual’é l’ingrediente principale del successo di Casa Pegus?
«Che tutti coloro che entrano si sentono a casa propria: non è assolutamente necessario essere un cliente o un amico. Vengono amici degli amici, gente non abbiamo mai visto: il nostro non è un club esclusivo ma un club inclusivo, facciamo entrare tutti. Se diventano clienti bene, se no fa lo stesso. Un altro aspetto importante è anche far passare il tempo: se ti ritrovi in uno stand dove mostri solo i prodotti diventa lungo e un po’ noioso, invece così tra un caffè, due fette di salame e una bruschetta è più piacevole. Poi in tanti portano qualcosa dal loro territorio o paese di origine, c’è uno scambio culturale e gastronomico: dal tartufo del Molise all’olio dell’Umbria, un po’ tutti ci tengono a farsi conoscere e a partecipare».
E’ stato difficile continuare a portare avanti questo modello?
«Casa nostra è sempre stata un porto di mare: con mio padre erano 11 fratelli, quindi non potete immaginare cosa erano i pranzi e le cene di famiglia tra zii, nonni, cugini e parenti collaterali, siamo bene allenati. Mi ricordo queste occasioni sin da piccolino, arrivavano in tanti ed era veramente una festa con le donne di una volta che sapevano far da mangiare in modo sublime, piatti semplici ma gustosi. E con un bicchiere di vino buono si sta sempre meglio».
In effetti lei è cresciuto guardando il mondo dell’equitazione da un punto di vista del tutto particolare.
«Sono del 1964, mi ricordo clienti che quando ero ragazzino avevano appena cominciato a montare e adesso sono tra i cavalieri italiani più affermati: Campagnaro, Bologni, Chiaudani, Moyersoen…ma non siamo cambiati e cresciuti soltanto noi, anche l’ambiente è molto diverso dai tempi di mio padre. L’altro giorno ero con alcuni ragazzi di Trieste: ci raccontavano che una volta arrivavano da qualche parte per montare in concorso e i cavalli erano sparsi per tutta la città, si portavano dietro le poste da montare dove era possibile. Era uno sport da pionieri ricchi, che non avevano problemi economici e tanti groom che si adoperavano per sistemare e governare i cavalli nonostante le difficoltà logistiche. Oggi ogni cosa è organizzata all’ennesima potenza: cavalli sicuramente di alta qualità media, alloggiati perfettamente in box con lettiere confortevoli e sabbia francese sui campi, tutto quello che serve per esprimere le loro potenzialità al meglio. Ma finita la gara ognuno si infila nel suo van e non c’è quasi più vita sociale: un mondo più tecnico e scientifico, certo, ma anche un po’ più freddo e asettico».
Forse: ma certamente non nei paraggi di Casa Pegus