Bologna, martedì 25 maggio 2021 – Non ha ancora 40 anni essendo nato il 10 giugno del 1982, e ha già superato le cento presenze nella squadra nazionale elvetica… Ha vinto medaglie in tutti i campionati internazionali possibili, compresa quella sognata da qualunque atleta di qualunque sport, cioè la medaglia d’oro individuale alle Olimpiadi… Per tre volte ha trionfato nella finale della Coppa del Mondo di cui è campione in carica… Un fuoriclasse magnifico, un numero uno assoluto, realtà certificata anche dalla computer list mondiale di salto ostacoli in testa alla quale Steve Guerdat è salito all’inizio del 2019, rimanendovi senza soluzione di continuità (tranne il mese di gennaio 2020, quando il suo grande amico Martin Fuchs lo ha sostituito… temporaneamente) fino quanto meno a questo maggio 2021. Questioni di tempo, quindi. E di successo. Tempo e successo uniti insieme: una relazione perfetta per un campione che è Rolex Ambassador ormai dal 2012…
Che significato ha per lei essere il numero uno del mondo?
«Partiamo dal presupposto che al momento la computer list non significa molto: da quando è scoppiata la pandemia il meccanismo di attribuzione dei punti è stato modificato quindi direi che in questo periodo la graduatoria internazionale non rispecchia in maniera fedele una realtà complessiva».
Però lei era il numero uno da ben prima della pandemia: tutto il 2019 l’ha vissuto al primo posto della classifica mondiale dei cavalieri di salto ostacoli!
«Sì, ovviamente è bello essere lassù, è un bel riconoscimento anche per tutte le persone che lavorano con me e che mi supportano, ma non è qualcosa che inseguo, la mia vita sarebbe la stessa se fossi il numero 15 o 25… La cosa importante per me è montare a cavallo e fare bene il mio sport. Diciamo che essere il numero uno del mondo lo considero un premio più che un obiettivo, ecco».
Il criterio di attribuzione dei punti per la computer list durante il periodo di blocco dei concorsi è stato uno degli argomenti più dibattuti a livello internazionale…
«Francamente non ho un’idea precisa in merito… L’unica cosa di cui sono assolutamente certo è che le cose dovrebbero essere uguali per tutti, poi se domani mi dicessero che si riparte da zero mi andrebbe bene, se mi dicessero che si riparte da dove eravamo prima della pandemia mi andrebbe bene lo stesso… Come ho detto la mia vita non cambia a seconda della computer list, a me piace andare in concorso e tentare di vincere: se vinco salgo, se non vinco scendo. Tutto qui».
Parlando di vittorie, lei ha perduto tanti ottimi cavalli nel corso della sua carriera, ma poi è sempre riuscito a presentarne altri dal rendimento perfino migliore: come fa a mantenere una continuità di tale eccellenza e a valorizzare ad alto livello un numero così elevato di cavalli?
«Penso di essere una persona di mentalità molto aperta circa i cavalli che devo montare, non ho pregiudizi, non mi fisso su un tipo di cavallo in particolare. Alcuni cavalieri hanno un ottimo cavallo, poi lo perdono e da quel momento vanno alla ricerca di un sostituto identico, che sia della stessa qualità e dello stesso tipo, dimenticando che il cavallo perduto al suo arrivo in scuderia probabilmente non era già un campione, e che campione lo è diventato poi. È il cavaliere che deve fare del suo cavallo un buon cavallo, possibilmente un ottimo cavallo: spesso questo lo si dimentica. Ai cavalli bisogna sempre dare l’opportunità di crescere, imparare e migliorare».
La sua attuale scuderia un tempo apparteneva a Paul Weier, una leggenda nella storia del salto ostacoli elvetico: ha qualche significato per lei questo fatto?
«Direi di sì, ci sono buone vibrazioni in quel posto, per me è importante sapere che lì c’è stata una storia. Che c’è una storia. È un luogo che ha un cuore. Spesso quando si vanno a vedere scuderie nuove si apre il cancello e… si ha la sensazione di entrare in un hotel a sei stelle, tutto scintillante, una specie di Disneyland, tutto ti fa esclamare wow che meraviglia! Ma poi guardi i cavalli e vedi che hanno poca paglia, fieno cattivo, box senza finestre, senza paddock, senza erba… vai in selleria e di nuovo sembra di entrare in un albergo super lussuoso, poi vai nei box e vedi che i cavalli non stanno bene… ».
Mentre la sua scuderia è l’esatto contrario…
«Esatto. A me piace che sia vecchia e che abbia una storia, e che i cavalli stiano bene. Il punto centrale non sono il comfort e il benessere dei cavalieri e dei clienti, bensì quello dei cavalli. Il cavallo deve stare al centro di tutto, anche se questo tutto non scintilla… I cavalli sono animali, devono essere trattati da animali ed essere felici e stare bene nella loro natura. Questa per me è la cosa più importante».
Per questo lei li monta e li lavora su di un prato che non sembra affatto un campo ostacoli?
«Mi piace montare i miei cavalli all’aria aperta e sull’erba, mi piace che stiano nel loro elemento, mi piace trattarli a loro volta come espressione di quello stesso elemento. E poi ci sono così tanti ostacoli naturali da sfruttare: tronchi, siepi, fossi, muretti… È salutare anche per il loro benessere mentale, per il loro equilibrio e per il loro umore».
Chi è maggiormente responsabile della sua formazione di cavaliere?
«Direi due persone. Prima di tutto mio padre che mi è sempre stato vicino ma che ha anche capito quando è stato il momento di fare un passo indietro per darmi la libertà di fare le mie esperienze in autonomia e di imparare anche da altre persone, e se anche può sembrare paradossale questa in realtà è stata una forma magnifica di sostegno da parte sua. L’altra persona è Thomas Fuchs, perfetto per farmi salire l’ultimo gradino… A un certo punto mi sono reso conto che avrei avuto bisogno di qualcosa in più per diventare quello che come cavaliere avrei voluto essere: e questo qualcosa in più è stato Thomas Fuchs. Thomas mi ha dato tanto, forse l’ultima percentuale di cui avevo bisogno, però la più importante».
Ma come organizzate il lavoro insieme: lui viene da lei, lei va da lui… come funziona?
«Adesso è diverso rispetto ai tempi in cui abbiamo cominciato. All’inizio lui veniva da me almeno una volta alla settimana, ma ci sentivamo tutti i giorni al telefono, e più volte nella stessa giornata. Il nostro è stato ed è ancora molto più di un rapporto tra atleta e allenatore: direi proprio una relazione di tipo familiare, con quel genere di vicinanza e profondità. Una parte fondamentale della mia vita, più che della mia carriera: e credo che sia così anche per Thomas. Adesso naturalmente le cose sono un po’ diverse: io ho la mia scuderia e la mia famiglia, Thomas dedica molto tempo a suo figlio Martin, ma so benissimo che in qualunque momento io dovessi avere bisogno di lui Thomas ci sarebbe, e la stessa cosa da parte mia per lui».
Martin Fuchs è il numero tre del mondo, lei il numero uno, siete amici fraterni ma molto spesso anche fortissimi avversari: come vive questa dimensione del rapporto con lui?
«Le cose sono molto diverse rispetto agli sport in cui ci si confronta uno contro uno, tipo tennis o boxe, dove si ha un avversario al proprio cospetto. Quando io monto a cavallo non lo faccio contro qualcuno, lo faccio per cercare di dare il mio meglio in quel momento. Lo faccio per me stesso, lo faccio per il mio cavallo, lo faccio perché noi due insieme si possa vincere la gara, ma non per battere qualcuno degli altri concorrenti».
Lei è consapevole di essere un esempio e un modello per un’infinità di altri cavalieri?
«Non direi, sinceramente. Anche perché moltissime volte durante la settimana ho la netta sensazione di dover migliorare molte cose, spesso non mi sento soddisfatto di quello che sto facendo, quando sono in concorso commetto errori che non dovrei commettere più… Poi sono consapevole del fatto che ci sono un sacco di cavalieri che riescono a fare alcune cose molto meglio di me… quindi no, non ho questa sensazione».
E invece il suo cavaliere di riferimento? Il suo cavaliere favorito?
«John Whitaker. È il mio idolo assoluto sotto tutti i punti di vista: lo è sempre stato. Ma naturalmente guardo con molta attenzione quello che fa Ludger Beerbaum, quello che fa Marcus Ehning, quello che fa Julien Epaillard, anche Martin (Fuchs, n.d.r.). È importante osservare con attenzione i cavalieri più bravi: c’è sempre da imparare dai più forti».
Tra i tanti cavalli che lei ha montato ne ha uno favorito per qualche motivo?
«Direi che il rapporto più intenso l’ho vissuto con Jalisca Solier. Lei ha cambiato la mia vita. Molte delle cose che oggi posso dire di avere e di aver fatto non le avrei e non le avrei fatte se non ci fosse stata Jalisca».
Qual è stato il momento più importante della sua vita sportiva?
«Domanda difficile. Probabilmente ci si aspetterebbe che rispondessi la vittoria della medaglia d’oro individuale alle Olimpiadi, che in effetti è il massimo che qualunque atleta possa sognare e che per questo porterò sempre nella mente e nel cuore. Ma tutte le vittorie hanno un significato particolare: per il momento in cui arrivano, per quello che in quel momento preciso rappresentano per la mente e per il cuore».
Ecco, le Olimpiadi. Cosa pensa pensando alle prossime di Tokyo?
«Anche questa è una domanda difficile cui rispondere. Penso due cose. La prima. Io faccio lo sport perché amo lo sport, amo i cavalli, e poter vivere la mia vita facendo lo sport insieme ai cavalli è un privilegio enorme. Il mio sport mi piace per il rapporto che posso vivere con i cavalli, ma anche per il rapporto che posso vivere con il pubblico. Lo sport non è solo questione di essere il migliore in quel particolare momento: lo sport è anche una questione di emozioni, e le emozioni si vivono grazie ai compagni, grazie alle persone con le quali si condividono le cose, ma anche grazie al pubblico, grazie all’atmosfera che il pubblico crea quando si entra in campo ostacoli prima del percorso, durante il percorso e al termine del percorso… Non è solo una questione di competizione, perché alla fin fine tutto è competizione: anche quando gioco a calcio o a tennis con i miei amici è competizione e io voglio vincere, ma lo sport che io amo è quello che dà emozioni, ed è quello con il pubblico. Qual è la differenza tra le Olimpiadi e un normale concorso di alto livello? L’atmosfera… Io devo saltare ostacoli verticali, ostacoli larghi, in un tempo massimo, e devo essere veloce e fare percorso netto: è così sempre, in qualunque concorso, anche alle Olimpiadi. Ma perché le Olimpiadi sono diverse? Per l’atmosfera. Perché sono… le Olimpiadi. Se si toglie l’atmosfera si tratta né più né meno della stessa cosa che si fa in un qualsiasi concorso importante. Quindi io non vedo la ragione per cui si debbano fare le Olimpiadi se non si può avere il pubblico. Una parte del mio pensiero è quindi questa».
E l’altra?
«L’altra… beh, penso che questo ragionamento sia un po’ egoistico, un po’ egocentrico, in effetti. Noi siamo veramente fortunati nel nostro sport, possiamo arrivare a fare perfino otto Olimpiadi… ma ci sono sport in cui se ne possono fare una, al massimo due… Non solo: ci sono sport per i quali le Olimpiadi sono l’unico traguardo in assoluto, ci sono atleti che fanno il loro sport solo per arrivare lì, alle Olimpiadi. Del nostro sport noi ne abbiamo fatto l’intera nostra vita, ne abbiamo fatto un’industria, siamo in gara ogni fine settimana… ci sono atleti che lavorano in modo infinitamente più duro rispetto a noi e che hanno a disposizione un grande appuntamento solo una volta ogni quattro anni… Tokyo per molti atleti potrebbe essere l’ultima opportunità, in alcuni casi perfino l’unica. Insomma, ecco perché per me è difficile avere un’opinione definita: queste considerazioni hanno entrambe un grande valore».
Parlando di emozioni, lei riesce ad avere ancora un rapporto sentimentale forte con i suoi cavalli? Nonostante i tanti montati e soprattutto considerando il ritmo serrato dell’attività agonistica?
«Oh sì, e sempre di più, sempre più forte! Più passa il tempo e più migliora la mia capacità di approfondire questa relazione. Sono molto consapevole di questo e ne sono felicissimo».
Ma il rendimento agonistico di un suo cavallo influenza la natura di questa relazione tra voi?
«No, assolutamente. Torno a fare il caso di Jalisca: lei non è di certo il cavallo con il quale ho vinto di più, ma altrettanto certamente con lei ho vissuto un rapporto molto speciale. Per me montare a cavallo non è qualcosa che ha a che fare con… non so, il dressage, o i percorsi… o con quello che comunque si deve fare con il proprio cavallo, bensì qualcosa che ha a che fare con il rapporto che si riesce a instaurare con lui, il livello di comprensione reciproca che si raggiunge, e il modo in cui si arriva insieme a raggiungere qualcosa, mettendosi nella posizione di poter vincere… che sia una gara piccola o grande… non importa. Ecco perché all’inizio dicevo che la computer list non ha molta importanza per me: io posso provare la massima felicità per il miglioramento di un cavallo nelle gare piccole, o in quelle per i cavalli giovani, tanto quanto vincere un grande Gran Premio con un cavallo che lo ha già fatto prima. Alla fine la mia gioia e la mia gratificazione non stanno in quanto e in cosa ho vinto, bensì nel modo in cui sono migliorati o stanno migliorando i miei cavalli. Questa è la cosa più importante».