Bologna, lunedì 27 dicembre 2021 – Prima di tutto è un graphic designer: progetta e dà vita a immagini grafiche per aziende o per privati che gli commissionano la realizzazione del logo e del marchio. Poi è un pittore: disegna e dipinge. E quindi è un cavaliere: e vince medaglie alle Olimpiadi… Peder Fredricson, svedese, 49 anni (ne compirà 50 il prossimo 30 gennaio): un campione straordinario. Anzi, meglio: un uomo straordinario.
Tre medaglie conquistate quest’estate nel giro di solo pochi giorni tra Olimpiadi e Campionato d’Europa: possiamo dire che quello sia stato il periodo migliore della sua carriera?
«Direi proprio di sì. Anzi, sicuramente sì».
A quando farebbe risalire l’inizio del tutto?
«Senz’altro all’arrivo in scuderia di All In. È arrivato nei suoi 7 anni, alle Olimpiadi di Rio de Janeiro nel 2016 ne aveva 10. Un cavallo eccezionale».
Quando si è reso conto dell’eccezionalità di All In?
«Subito, fin dal primo momento in cui l’ho provato. Naturalmente con i cavalli non si può mai essere sicuri al cento per cento, ma quando lui è arrivato a casa e ho cominciato a montarlo mi è bastato molto poco per capire che si trattava davvero di un cavallo straordinario».
E dire che a guardarlo mentre sta fermo o anche mentre si muove in piano sembrerebbe il classico cavalluccio della scuola…
«Sì, è proprio vero! Ma poi quando salta… ».
Come è andata la storia del suo acquisto?
«Avevo un proprietario che voleva comperare un cavallo per me in vista delle Olimpiadi, tre anni prima di Rio. Avevo già provato due cavalli e deciso di acquistarli, ma poi durante il Campionato del Mondo dei giovani cavalli a Lanaken ho visto All In montato da Nicola Philippaerts, 4° nei 7 anni, e aveva saltato benissimo. Quella sera stessa io avrei dovuto prendere l’aereo per tornare a casa, ma ho chiesto se si poteva provare il cavallo: mi è stato risposto affermativamente così ho cambiato la prenotazione del volo e la mattina seguente molto presto sono andato in scuderia… E l’ho visto lì, in box, nella semioscurità: baio, piccolo, magro, sembrava davvero il cavalluccio della scuola. E anche molto basso per la mia statura… E lì mi sono detto ma perché mi è passato per la testa questo pensiero, sto solo perdendo il mio tempo, adesso sarei già tranquillamente a casa mia… Ma ormai ero lì… Così All In l’abbiamo portato fuori, fatto trottare un po’ e i miei pensieri negativi si sono perfino rafforzati. Ma poi ho cominciato a saltare, e… beh, sensazioni incredibili, incredibili!».
Tra l’altro piccolo, sì, ma adatto al suo stile di cavaliere: sembra che lei preferisca infatti cavalli caldi e insanguati, piuttosto che freddi e potenti…
«Sì, esatto, assolutamente. Quando poi mi sono seduto in aereo per tornare a casa la mia idea su All In era cambiata radicalmente: ero certo di aver trovato il cavallo giusto. Ero sicuro. Ho chiamato la persona che voleva fare l’acquisto e gli ho detto senza mezzi termini che quel piccolo cavallo dovevamo assolutamente comperarlo. In tutta la mia vita io non ho mai spinto qualcuno a fare l’acquisto di un cavallo perché si tratta pur sempre di un grande rischio, non si può mai sapere quello che poi succederà veramente. Ma quella volta no: quella volta non ho avuto alcun dubbio».
Parliamo di lei, adesso: quando e come ha cominciato a montare?
«Ho cominciato da molto piccolo, prima di quanto possa ricordare… Mio padre Ingvar era molto appassionato, e poi mio fratello Jens montava già. Jens ha cinque anni più di me e io fin da piccolissimo volevo essere come lui… ».
Vostro padre aveva un centro ippico?
«No, a quel tempo faceva il veterinario e insegnava anche all’università. Non credo abbia mai pensato di diventare un cavaliere professionista, però aveva un cavallo di sua proprietà che teneva in una scuderia presa in affitto dove c’erano anche i pony per noi. Per stare un po’ con lui non avevamo scelta, dovevamo seguirlo in scuderia perché quando lui tornava a casa dopo aver finito di lavorare si precipitava dal suo cavallo… Abbiamo cominciato così».
Però poi lei si è dedicato al completo, non al salto ostacoli: perché?
«Quando ho compiuto dieci anni mio papà ha ricevuto una proposta di lavoro dal centro equestre nazionale di Flyinge, di cui poi è diventato il direttore. Quindi ci siamo trasferiti tutti lì. Una meraviglia, perché in quel periodo a Flyinge c’erano campioni favolosi… c’era Kyra Kyrklund, amazzone olimpica di dressage, c’era Peter Eriksson, cavaliere olimpico di salto ostacoli, c’era Jan Jonsson, medaglia di bronzo in completo alle Olimpiadi di Monaco 1972… e poi molti altri grandi personaggi del mondo degli attacchi, dell’allevamento… Vivendo lì con la mia famiglia io ero completamente immerso in tutto questo: montavo il mio pony e guardavo questi grandi campioni… ».
Ma il completo?
«Nella mia nuova scuola sono diventato molto amico di due ragazzi che stavano in classe con me. Uno di questi era proprio il figlio di Jan Jonsson, il quale però non montava a cavallo: ha cominciato a farlo grazie all’amicizia con me, e naturalmente suo padre ne è stato felicissimo. Così Jan Jonsson ha cominciato a fare lezione a tutti e due: e molto intensamente, dato che suo figlio essendo più indietro di me ne aveva molto bisogno. Jonsson era un vero e proprio eroe in Svezia in quel periodo: l’unico vincitore svedese di una medaglia olimpica per un sacco di tempo, era un simbolo. La sua medaglia di bronzo era appesa nella stanza in cui spesso io e suo figlio ci trovavamo per stare insieme, e io sono cresciuto con l’immagine di quella medaglia davanti agli occhi pensando che avrei dato non so cosa per raggiungere un traguardo del genere».
E in effetti la sua prima Olimpiade lei l’ha fatta proprio in completo.
«Sì, a Barcellona nel 1992. Da young rider ho anche vinto il Campionato d’Europa. Mi piaceva moltissimo il completo, soprattutto i cross dei grandi appuntamenti come Badminton o Burghley».
Un cavaliere di salto ostacoli è migliore se ha vissuto anche l’esperienza del completo?
«Diciamo che non è indispensabile, però partire dal completo è un buon modo per cominciare. Amplia la conoscenza e migliora le capacità. Non è solo una questione di tecnica, ma anche un modo più ampio e generale di pensare al proprio cavallo, più completo appunto».
Non ha mai avuto voglia di ritornare al completo?
«In realtà lo seguo sempre, ho ancora molti amici che fanno le gare di completo. Poi con i miei cavalli vado spesso a saltare in campagna, mi piace e anche loro si divertono, saltiamo fossi, tronchi… A casa abbiamo grandi spazi per poterlo fare, poi ci sono i sentieri e i percorsi nella foresta… Credo che per i cavalli da salto ostacoli sia molto utile saltare e muoversi su terreni diversi e in ambienti diversi. Non si può stare sempre dentro un maneggio o un campo recintato: a me non piace e direi nemmeno ai miei cavalli».
A proposito: lei monta i suoi cavalli senza ferri. Come mai?
«Ho cominciato a farlo direi un anno e mezzo fa. Avevo un ottimo cavallo che però era sempre zoppo. L’abbiamo trattato e curato in mille modi, abbiamo discusso con i veterinari a non finire, abbiamo fatto di tutto ma senza successo. Allora ho deciso di metterlo al prato per almeno un anno: gli abbiamo tolto i ferri e via. Però osservandolo di tanto in tanto mi è sembrato che senza ferri si muovesse un po’ meglio. E in effetti pian piano è migliorato, così, senza fargli nulla di particolare. La trasformazione di quel cavallo semplicemente togliendogli i ferri è stata davvero impressionante».
Così adesso tutti i suoi cavalli stanno senza ferri?
«Sì. Ovviamente porto sempre con me delle protezioni per i loro piedi nel caso in cui sia necessario utilizzarle a causa del terreno, poi ho una specie di colla protettiva che si applica lungo tutto il perimetro dello zoccolo se necessario. Per me è molto importante che il cavallo possa muoversi naturalmente: se lo fa in modo rigido, come quando noi indossiamo delle scarpe troppo dure, allora nascono mille altri piccoli problemi alle articolazioni, ai muscoli… L’unica eccezione la faccio quando saltiamo sull’erba: allora in quel caso uso dei ferri speciali, leggerissimi, li mettiamo qualche giorno prima del concorso a tutti e quattro i piedi».
A Tokyo quindi All In era sferrato.
«Sì, lì il terreno era perfetto ovunque da questo punto di vista, non solo in campo gara e in campo prova ma anche in scuderia, nei corridoi, lungo i percorsi che si dovevano fare da una zona all’altra perché la pavimentazione era di materiale gommoso. La questione è molto semplice: se il cavallo sta bene e si sente bene, gareggia bene. Un cavallo senza ferri si muove con più leggerezza e inoltre sente meglio il terreno, ha un contatto più diretto e chiaro».
Torniamo a lei e alla sua attività di graphic designer e di pittore: come concilia il tutto con il montare a cavallo?
«Non concilio, nel senso che negli ultimi anni mi sono dedicato solo ai cavalli. Disegno ancora qualche logo ogni tanto, ma niente a che vedere con quello che facevo prima».
Prima di quando?
«Di avere All In. Quando è arrivato lui mi sono reso conto di avere un cavallo molto speciale e c’erano le Olimpiadi di Rio all’orizzonte: ho capito che mi sarei dovuto concentrare solo su quello. Così ho smesso di lavorare come graphic designer, per potermi dedicare al cento per cento allo sport. Però è anche vero che dipingendo e creando si fa lavorare un’altra parte del proprio cervello, così quella deputata allo sport e a tutte le cose dei cavalli si riposa. Quindi sarebbe importante per me riuscire a fare entrambe le cose, e magari in futuro sarà così. Anzi, ne sono certo. Ma per adesso solo cavalli».
La creatività e la sensibilità artistica l’hanno aiutata a essere un cavaliere migliore?
«Ecco, domanda difficile… Allora, in generale le persone credono che io sia molto organizzato e strutturato, ma in tutta sincerità non sono affatto così. Anzi, di natura io sono piuttosto… bohémien, mi piace prendere le cose come vengono. Direi che in effetti ho una mentalità piuttosto artistica ma mi sono reso conto ben presto che se si vuole davvero lavorare con i cavalli e ottenere risultati agonistici con continuità ad alto livello la cosa non funziona. Ci vuole per l’appunto organizzazione e massima cura del minimo dettaglio».
Quindi ha dovuto… forzare sé stesso in quella direzione?
«Esatto. Proprio così. Ho deciso che dovevo stabilire una routine molto rigida che mi aiutasse a rimanere dentro uno schema organizzato. Per questo faccio sempre le cose nello stesso modo, per questo mi sforzo di ripetere tutto secondo una successione di eventi prestabiliti. Per le persone naturalmente organizzate tutto ciò è spontaneo, istintivo, ma non per me: io devo fare in modo che ciò accada, per me è una questione di autodisciplina. All’inizio è stato molto difficile, dimenticavo alcune cose, tralasciavo qualche dettaglio: allora ho deciso che mi sarei messo a tavolino e avrei scritto per filo e per segno quello che avrei dovuto e voluto fare, come farlo, quando farlo, e poi seguire tutto alla lettera… ».
È per questa ragione che lei fa la ricognizione di ogni percorso prendendo appunti?
«Sì, proprio per questo. È un’abitudine nata circa due anni prima delle Olimpiadi di Rio, quando c’è stata la concentrazione di due eventi importanti: l’arrivo di All In e il contratto di sponsorizzazione con H&M. Io venivo dal completo, lì si saltava in campagna, nei boschi, lunghe distanze… invece in campo ostacoli è tutto così preciso, dettagliato al millimetro, molto più tecnico. Ho dovuto adattare rapidamente la mia equitazione a tutto questo cercando di migliorarla al massimo: metri, falcate di galoppo, distanze, girate, allungate, raccorciate, tutto nello spazio di pochi secondi di percorso. Così ho cominciato con questo sistema, prendo appunti dal primo ostacolo fino all’ultimo: distanze, numero di falcate, opzioni possibili… ».
Ma questo perché la aiuta a imprimere nella mente le cose mentre fa la ricognizione, oppure perché le serve rileggere il tutto dopo, una volta tornato in campo prova?
«Diciamo che scrivere mi aiuta a ricordare, è un modo per fissare nella memoria le cose. Finita la ricognizione metto gli appunti nel taschino della camicia e in campo prova faccio un’altra cosa che mi aiuta tantissimo: la visualizzazione del percorso. Chiudo gli occhi e vedo me stesso montare in percorso esattamente come penso di doverlo fare, come se l’avessi già fatto in effetti. Se ho qualche dubbio riprendo i miei appunti, li consulto, poi richiudo gli occhi e continuo. Le cose si trasferiscono così dal mio cervello al mio corpo, in modo che il mio corpo si predisponga alla migliore esecuzione possibile. Vedo molti cavalieri che dopo aver fatto la ricognizione tornano in campo prova e parlano, chiedono agli altri cavalieri informazioni, pareri, consigli… e si può fare, certo, anzi, ma alla fin fine la questione è sempre e solo tra te e il tuo cavallo, perché tu conosci il tuo cavallo, sai se ha una falcata lunga, corta, cosa lo preoccupa… se chiedi a qualcun altro avrai l’opinione di qualcuno che non conosce il tuo cavallo come lo conosci tu».
Per gli appunti usa un taccuino, un quadernetto, qualcosa di particolare?
«No, di solito lo faccio sul foglio con l’ordine di partenza. Perché così ho tutto lì, tutte le informazioni che mi servono in un unico supporto: chi parte prima di me, chi dopo, quando parto io, più tutti i miei appunti. Finita la gara butto via tutto, non conservo nulla. Questa è la mia routine, ed è una cosa che mi dà molta sicurezza».
Cosa pensa di sé stesso come cavaliere?
«Oh, altra domanda difficile… Penso di essere un cavaliere che monta in modo semplice, che crede nell’importanza del lavoro in piano senza forzature e costrizioni, in modo che sia gradevole per i cavalli. Io propongo delle cose ai miei cavalli, e spero sempre di sentirli accettare con piacere e con voglia di fare».
Ma quando sente che la gente parla di lei come di un campione formidabile?
«Beh, è strano perché in realtà quando monto a cavallo non mi sento mai un buon cavaliere… Siamo tutti così fragili, così dipendenti da un buon cavallo, da una buona giornata… Se sei un centometrista puoi essere certo di essere il più veloce del mondo e per questo sentirti un grande campione, ma con i cavalli è tutto molto relativo, è difficile sentirsi bravi, bravi cavalieri, bravi atleti. Può cambiare tutto da un momento all’altro… ».
Le piace la gara, le piace la competizione?
«Sì, direi di sì. In realtà non sono una persona competitiva, però mi piace crescere e avere obiettivi. Non mi piace perdere, certo, ma per me l’importante è avere un progetto e completarlo, piuttosto che vincere in continuazione. La gara è solo una parte del tutto: mi piace tantissimo anche lavorare i cavalli a casa, montare i cavalli giovani, farlo senza pressioni e scadenze, seguire la loro crescita… passare del tempo con loro. La gara è importante per capire se si sta seguendo la giusta direzione e se a casa si sta lavorando bene, soprattutto questo».
A proposito di casa: quanti cavalli avete in scuderia?
«In tutto una trentina. Solo nostri, non abbiamo cavalli a pensione. Ci sono quelli che escono in concorso con me più quelli giovani che monta Stephanie Holmen».
Sua moglie Lisen Bratt è stata un’amazzone molto importante: non monta più adesso?
«Lisen l’ho conosciuta vent’anni fa e al tempo aveva molto più successo lei di me: ha fatto due Olimpiadi, ha vinto Gran Premi importanti tra cui anche quello di Roma nel 2000. Io la aiutavo più che potevo, guidavo il camion con cui andavamo in giro per concorsi con i suoi cavalli… Adesso però lei non monta più, è molto impegnata nella nostra compagnia che si occupa di acquistare e gestire i cavalli giovani. Lisen è una parte fondamentale della mia vita: abbiamo tre figli, condividiamo tutto, ci confrontiamo su tutto sebbene ciascuno di noi abbia il suo specifico campo d’azione».
Tokyo?
«Fantastico. Tutto. I nostri cavalli sono stati magnifici, per me è stato un onore essere parte di una squadra del genere. Rolf-Goran Bengtsson come quarto della squadra è stato favoloso, il nostro capo équipe ha fatto un lavoro magnifico, c’era uno spirito di squadra fortissimo, i groom sono stati magnifici, tutti amici tra l’altro… Uno di quei momenti in cui le stelle sono al posto giusto, la luna al posto giusto, i cavalli al meglio della forma e della salute… Penso che potrebbero passare altri cento anni prima che tutto questo coincida così perfettamente come è accaduto a Tokyo… ».
Poi subito dopo il podio anche nel Campionato d’Europa di Riesenbeck…
«Oggi sono molto orgoglioso della mia medaglia di bronzo di Riesenbeck, ma quando il secondo giorno ho avuto un errore, beh… quelle 4 penalità mi hanno davvero dato fastidio… Sensazioni miste. Felice per la medaglia, certo, ma allo stesso tempo così vicino alla vittoria senza averla conquistata… Anche a Tokyo con la medaglia d’argento: bellissimo, certo, ma allo stesso tempo non era quella d’oro. Ecco perché dopo è stato così bello vincere l’oro con la squadra».