Bologna, 8 ottobre 2018 – Tante storie dentro la storia dello sport. Nella storia dell’Italia che ieri a Barcellona avrebbe potuto vincere e non ha vinto – dunque poi soffrendo – ci sono tuttavia alcuni motivi di gioia. Il più grande di sicuro è lui, Riccardo Pisani (37 anni), in sella al suo Chaclot. Una storia nella storia. Cominciata nel febbraio del 2017, vissuta lungo mesi di preparazione e studio e allenamento nella penombra del dietro le quinte, per poi infine presentarsi al pubblico sotto le luci sfolgoranti del palcoscenico massimo. Coppa delle Nazioni a Hickstead il 29 luglio: un errore nel primo percorso, un punto sul tempo e nessun errore nel secondo. Coppa delle Nazioni a Gijon il 31 agosto: nessun errore nel primo percorso, quattro penalità nel secondo. Riccardo Pisani e Chaclot vengono convocati dal c.t. Duccio Bartalucci nella squadra azzurra che deve affrontare la finale mondiale di Coppa delle Nazioni a Barcellona… Venerdì 5 ottobre: zero penalità. Domenica 7 ottobre la finalissima, percorso molto difficile, solo quattro percorsi netti su trentadue concorrenti: ma tra i quattro c’è anche il loro, il percorso senza errori di Riccardo Pisani e Chaclot, il percorso che ci ha tenuto in gara fino alla fine.
«Io e Chaclot siamo arrivati pronti a Barcellona perché provenivamo da un programma di concorsi importanti: a Hickstead e a Gijon il mio cavallo aveva saltato molto bene. Chaclot a Barcellona ha dimostrato di aver raggiunto un livello molto alto».
Ma forse il suo approccio a Barcellona sarà stato psicologicamente un po’ diverso rispetto a quello delle altre due gare…
«Sì, il primo giorno, venerdì, ero un po’ agitato. Non tanto all’inizio del percorso o prima del percorso, bensì da metà in poi: da come ho sentito Chaclot infatti sapevo che avremmo potuto chiudere senza errori, e allora mi è venuta un po’ di emozione perché lo zero l’avrei potuto perdere solo per colpa mia».
Domenica invece?
«Molto meno. Anche perché prima della gara avevo parlato a lungo con Jos Lansink con il quale lavoro da poco più di un anno, e con lui abbiamo deciso di concentrarci esclusivamente sul percorso senza tenere in conto tutte le ulteriori eventuali implicazioni, fidandoci ciecamente del cavallo, dandogli modo di valorizzare tutte le sue caratteristiche migliori, senza pensare a dove eravamo e a cosa stavamo facendo. Solo lui, io e gli ostacoli. Ho affrontato quel percorso come se fosse un percorso normale, anche se tutto era tranne che normale… La pressione domenica l’ho sentita dopo, a percorso ultimato, per come si stavano mettendo le cose per la squadra… ».
Il 2018 è la sua stagione più importante, se non migliore…
«No, direi entrambe le cose: importante e migliore. Importante per il tipo di gare affrontate. Migliore per la continuità di risultati. Gli anni scorsi ho avuto qualche buon risultato ma non sono mai riuscito a mantenerne la regolarità ad alto livello, un po’ perché mi mancavano i cavalli, un po’ per l’organizzazione e un po’ perché in effetti io non ero così pronto».
Quindi nel 2018 si è completato il processo di maturazione di tutte queste componenti?
«In parte questo, ma molto grazie a Chaclot. Lui è davvero un primissimo cavallo che nelle gambe ha il percorso da 1.50. Grazie a lui è stato meno difficile del solito programmare una stagione ad alto livello. Poi come spesso succede con soggetti del genere si prende una certa confidenza con le grandi gare, e da questo ne traggono grande beneficio anche tutti gli altri cavalli della scuderia».
Chaclot è arrivato non da molto nella sua scuderia.
«Sì, l’abbiamo comperato nel febbraio del 2017 quando aveva 8 anni, è di proprietà di mia suocera. Era un cavallo molto verde, lo montava un ragazzone che faceva solo gare nazionali. Ci è subito piaciuto molto. Noi in realtà eravamo lì da Paul Schockemoehle per comperare dei cavalli giovani, però con Chaclot c’è stato una specie di amore a prima vista e così abbiamo deciso di correre il rischio».
Beh, rischio…
«Sì, nel senso che la nostra abituale politica è quella di investire sui cavalli giovani da inserire nello sport ad alto livello: Chaclot è il primo cavallo acquistato in età diciamo un po’ più avanzata e pronto per saltare le gare grosse».
E nel 2017 il cavallo ha confermato le vostre aspettative?
«Diciamo che il 2017 è servito per conoscerci e maturare insieme. Chaclot era un po’ tardivo come molti dei figli di Chacco Blue (il padre di Chaclot è lo stallone numero uno del mondo per produzione di figli nello sport, n.d.r.) in più è stallone. Durante l’anno ha alternato gare buone con altre caratterizzate da errori di inesperienza. Così con Jos Lansink abbiamo pensato di dedicare l’inverno a un lavoro di costruzione dalla base, dal lavoro in piano, e poi la primavera del 2018 a una serie di concorsi utili solo e soltanto in funzione del lavoro e non del risultato agonistico. Abbiamo lavorato sul fisico del cavallo, sulla sua condizione, sul trovare l’imboccatura giusta, su come organizzare il concorso nell’arco dei tre o quattro giorni di gara. Siamo davvero entrati nel cavallo. È stato come collegare tutti i tasselli di un puzzle per avere infine l’immagine completa».
C’è stato un momento in particolare in cui lei ha avvertito il completamento di questo lavoro?
«Sì. In Spagna. L’ultimo giorno dei uno dei concorsi del Sunshine Tour. Abbiamo fatto una gara da 1.35, niente di speciale, ma lì, proprio in quel percorso, ho sentito qualcosa di perfetto: e ho avuto la certezza che da quel momento in poi ci sarebbe stata una escalation solo positiva».
Ed effettivamente è avvenuto questo?
«Sì. La cosa più bella in assoluto è che ormai Chaclot nelle gare grosse è sempre come lo si è visto ieri a Barcellona. In tutte le gare più difficili degli ultimi mesi il suo rendimento è sempre stato uguale: non c’è stata una sola gara nella quale non abbia fatto bene, o non mi abbia permesso di montare bene».
Come è nato il suo rapporto con Jos Lansink?
«È successo l’estate scorsa. Ero a un concorso in Francia e stavo chiacchierando con Darragh Kenny (cavaliere irlandese, n.d.r.) che è un mio amico. Lui mi diceva che mesi prima aveva avuto bisogno di aiuto e così si era rivolto a Lansink, il quale gli aveva dato quei consigli e quegli insegnamenti che poi si sarebbero dimostrati risolutivi per i suoi problemi. Naturalmente io conoscevo bene Lansink, ma solo di vista, non certo dal punto di vista lavorativo, diciamo. Darragh mi ha messo in contatto con lui: io gli ho mandato dei video, gli ho spiegato il progetto della nostra scuderia che è esclusivamente sportivo e non commerciale, e rivolto in particolare ai cavalli giovani. Jos è quindi venuto a casa nostra, c’è stata subito una buona intesa: così mia moglie Silvia (Bazzani, a sua volta amazzone, n.d.r.) e io siamo andati da lui con otto cavalli per un mese e abbiamo fatto una immersione totale… trenta giorni di lavoro, ogni giorno, sempre con Jos. Quest’estate abbiamo affittato una scuderia vicino alla sua e ci siamo trasferiti lì con tutti i cavalli, anche i giovani, e siamo riusciti a organizzare insieme quasi tutti i concorsi».
I vostri cavalli sono per lo sport e non per il commercio: ma sono tutti di vostra proprietà?
«Sì, tutti. Li comperiamo giovani: il nostro obiettivo primario è lo sport, non il commercio. Il nostro sogno è entrare nell’alto livello e cercare di rimanerci, non fare una stagione e poi vendere il cavallo o scomparire… La mentalità è quella di dire vogliamo veramente provarci per restare».
Però si tratta di un impegno economico non indifferente…
«Questo è sicuro. Purtroppo nell’equitazione di oggi è così. Bisogna avere la fortuna di poterlo fare e di avere delle persone alle spalle che ti appoggiano. Devo dire che poi tre o quattro cavalli giovani importanti durante l’anno li abbiamo sempre venduti e questo ci aiuta. Però fondamentalmente vogliamo fare lo sport».
Quando ha ricevuto la convocazione per comporre la squadra italiana nello Csio di Hickstead cosa ha pensato?
«Che era arrivato il momento. Ci speravo, ci speravo davvero perché… beh, devo dire la verità, volevo avere un’opportunità perché mi sentivo pronto. Negli anni scorsi ho comunque montato dei buoni cavalli, ma con Chaclot è diverso: lui salta un percorso da 1.60 come ieri a Barcellona ed esce che sembra abbia fatto una gara da 1.30. Ed è sempre così».
Tra l’altro quello di ieri era un percorso che ha messo in difficoltà quasi tutti i binomi…
«Eh sì, era difficile, molto difficile. Soprattutto la parte finale, molto delicata: il percorso partiva bene, lineare, poi molto grosso e sulla parte finale bisognava essere assolutamente impeccabili».
Ce ne siamo accorti con Lorenzo de Luca ed Ensor…
«Maledizione, che sfortuna! Ci è mancato quel pizzico di fortuna in più».
Pensavate anche voi che fosse ormai fatta a un certo punto, come tutti del resto?
«Ci credevamo, eccome, anche alla luce dei risultati degli avversari… fino a tre quarti del percorso di Lorenzo pensavamo di vincere, al primo errore abbiamo detto andiamo al barrage, e poi… che rabbia».
Quale è stata la reazione tra di voi, dopo?
«Eh… ci siamo molto rammaricati perché non eravamo lì per partecipare ma per avere un buon risultato. Eravamo in forma, i cavalli saltavano bene, poi… lo sport è così purtroppo, un ostacolo solo ti può portare dall’essere primo all’essere quarto… Ma come non bisogna compiacersi troppo delle vittorie, non bisogna nemmeno disperarsi troppo per gli insuccessi».
Insieme ai vari Chimirri, de Luca, Marziani, Martinengo, Bucci, Zorzi, Gaudiano… lei come si sente? Le capita di avvertire un po’ di soggezione, in squadra? In fondo potrebbe essere quasi considerato come il… novellino del gruppo.
«Beh, prima di tutto devo dire che loro sono amici, persone che conosco da tantissimo tempo, quindi non ho mai provato l’imbarazzo di entrare in un luogo per me nuovo e dire oddio, devo fare attenzione a stare in punta di piedi. La mia fortuna è stata aver girato comunque molto all’estero, poi sono stato tre mesi fisso in Belgio con tutti quei concorsi importanti… in questo modo ci si abitua a stare a un certo livello e non ci si sente più… indifesi. Ho avuto il confronto necessario per capire se ero competitivo o no, a quel livello: questo intendo. Quest’anno ho fatto cinque o sei quattro stelle, tre cinque stelle, molti tre stelle difficili e importanti, e non con un cavallo solo, ma con due o tre: allora a quel punto acquisisci una mentalità tale da sentirti pronto per essere competitivo».
Quindi obiettivo sul Campionato d’Europa 2019?
«Piano… Quello è un sogno e un obiettivo al tempo stesso. Però facciamo un passo alla volta. Adesso cerchiamo di finire bene la stagione indoor, poi si programmerà per essere pronti in primavera con un cavallo in forma e poi… beh, non è che mi nascondo, ovvio che mi piaccia pensare al Campionato d’Europa. Però facciamo un passo alla volta. Meglio non sognare troppo e rimanere con i piedi ben saldi a terra! Da questo punto di vista lo sport insegna molto… ».