Bologna, giovedì 3 giugno 2021 – Quando nell’aprile del 2013 Rolex e i comitati organizzatori dei concorsi internazionali di Ginevra, Calgary e Aquisgrana hanno annunciato al mondo la nascita del Rolex Grand Slam of Show Jumping l’ammirazione degli addetti ai lavori per un progetto così straordinario è stata quasi equivalente al successivo ragionato scetticismo: chi mai ce l’avrebbe fatta… ? Quale cavaliere sarebbe mai stato capace di vincere consecutivamente i Gran Premi dello Csio di Calgary, dello Csio di Aquisgrana e dello Csi di Ginevra? Cioè i tre Gran Premi più difficili e importanti e ‘ricchi’ del mondo?
La sfida era – ed è tuttora – estrema: per questo il premio in denaro è altissimo… un milione di euro! Non è una somma che determina un valore commerciale: è una somma che determina un valore sportivo. E quindi: chi?
La risposta è arrivata nel settembre del 2015. Lui, solo lui, l’unico e solo, soltanto lui fino a oggi: Scott Brash. Il cavaliere britannico – scozzese per la precisione, nato il 23 novembre del 1985 – ha firmato la gigantesca impresa nel settembre del 2015 (quando il Rolex Grand Slam era ancora formato da tre concorsi: in seguito si sarebbe aggiunto quello di ‘S-Hertogenbosch e per le quattro vittorie consecutive il premio è di due milioni di euro… !) conquistando il GP dello Csio di Calgary dopo aver vinto le gare analoghe a Ginevra nel dicembre del 2014 e ad Aquisgrana nell’estate di quello stesso 2015. Sempre in sella al formidabile Sanctos van het Gravenhof, poi ribattezzato Hello Sanctos.
Rolex Grand Slam, aprile 2013, giugno 2021: Scott Brash, l’unico e solo.
«Essere stato il primo e unico cavaliere ad aver vinto il Rolex Grand Slam è una cosa di grande significato per me. Mi rende molto orgoglioso, ed è una gioia che condivido con tutta la mia squadra e con tutti coloro i quali mi hanno aiutato a realizzare un’impresa del genere. Un sogno che si è avverato, insomma».
Domanda maliziosa: le piacerebbe continuare a rimanere l’unico… ?
«Sono sincero: sì. Ma sarò il primo a congratularmi con chiunque dovesse riuscire a fare altrettanto perché nessuno più di me sa cosa voglia dire ottenere un successo del genere».
Cosa pensa oggi del meccanismo del Rolex Grand Slam e del suo regolamento?
«Penso che siano entrambi perfetti. Il Rolex Grand Slam dà ai cavalieri l’opportunità di avere fortissime motivazioni e grandi obiettivi. E impegnarsi in vista di un traguardo del genere permette di ottenere da sé stessi e dai propri cavalli il miglior rendimento possibile. Cosa voglia dire la mancanza di tutto questo l’abbiamo ben capito durante il lockdown dovuto alla pandemia… ».
Ecco, il lockdown: come ha vissuto lei questo periodo così particolare?
«Dal punto di vista dell’attività sportiva e della gestione dei cavalli la cosa più difficile da affrontare è stata il non sapere cosa sarebbe successo. Non sapere quando tutto sarebbe ripartito. Non si può prendere un cavallo e improvvisamente prepararlo per un grande evento: ci vogliono tempo e lavoro per riacquistare forza e forma fisica. Ma allo stesso tempo è impossibile far mantenere ai cavalli la forma migliore senza andare in concorso».
Alcuni cavalieri però sostengono che questa lunga pausa abbia permesso di lavorare meglio i cavalli giovani, e di far rifiatare un po’ quelli più maturi ed esperti…
«Sì, è vero… ma torno a dire che essersi trovati senza punti di riferimento è stato difficile, molto difficile. Adesso la ripresa dell’attività agonistica è un grande sollievo, credo per tutti».
I tre Gran Premi del suo Rolex Grand Slam lei li ha vinti in sella a Sanctos…
«Lui è il classico uno su un milione… ».
Aver montato un campione del genere è stato utile per essere un cavaliere migliore anche con gli altri suoi cavalli?
«Certamente. Il rapporto… la relazione fortissima che Sanctos ed io abbiamo raggiunto e stabilito tra noi è stata la chiave dei nostri successi insieme. E avendola vissuta e direi anche assorbita profondamente è ciò che io adesso tento di ricreare con tutti i miei cavalli. Grazie a quello che ho imparato con lui e da lui. Il che mi è molto utile soprattutto perché in questo momento ho la fortuna di montare alcuni cavalli davvero favolosi».
Parliamo di cavalieri. Lei e Ben Maher siete i portentosi rappresentanti della generazione di campioni successiva a quella dei vari David Broome, John e Michael Whitaker, Nick Skelton…
«Devo dire onestamente di non aver mai considerato la cosa sotto questo punto di vista… ! Ma se la gente dovesse anche solo accostarmi a nomi del genere… beh, per me sarebbe un grandissimo onore. Sarebbe un sogno poter vincere quello che hanno vinto loro, e soprattutto riuscire ad avere una carriera così lunga e continua ad alto livello come la loro».
Beh, lei ha vinto un oro olimpico a squadre, una medaglia di bronzo individuale e una d’oro e una di bronzo a squadre nel Campionato d’Europa, una finale Top 10 Rolex/Ijrs, il Rolex Grand Slam… e ha solo 35 anni…
«Ci provo, certo, non voglio fermarmi, ci mancherebbe altro… voglio cercare di essere un cavaliere sempre migliore».
La gara, la competizione, il confronto agonistico… sono cose importanti per lei quindi?
«La sensazione che si prova quando si vince un Gran Premio come quelli del Rolex Grand Slam o come quello di Roma… nessuna somma di denaro potrà mai comperare una sensazione del genere. Quando si ha la fortuna di provarla, quella sensazione, non si vorrebbe smettere di sentirla mai, mai, mai».
Emozioni, dunque. Eppure lei passa per essere un freddo ai limiti della glacialità, almeno in gara, capace di sostenere qualunque tipo di pressione e di responsabilità.
«Io amo la pressione. La pressione mi fa montare meglio, mi aiuta a tirare fuori il meglio di me stesso. E lo stesso vale per i cavalli. Mi ricordo Sanctos alle Olimpiadi di Londra: il primo giorno l’atmosfera era pazzesca, c’era una grande attesa, il pubblico era molto rumoroso e lui sentiva tutto questo, si era un po’ innervosito e intimidito. Ma da quel giorno in poi e per tutta la sua vita più era forte la pressione ed elettrizzante l’atmosfera, più lui capiva di dover fare il meglio e il massimo possibili. E succedeva proprio questo: lui faceva prestazioni magnifiche quando sentiva la tensione e l’eccitazione della grande gara. Quando siamo entrati in campo per il Gran Premio di Aquisgrana che poi abbiamo vinto lui ha capito immediatamente tutto: ed è stato come se fosse diventato un cavallo più grande anche fisicamente, più forte… ».
Sì, ma lei? Lei come cavaliere ha dovuto lavorare su sé stesso per vivere in questo modo il rapporto con la gara oppure le è sempre stato naturale?
«Penso che mi sia sempre stato naturale. Anche quando ero piccolo nelle gare pony nella squadra scozzese e ci battevamo con le squadre del Galles e dell’Inghilterra io venivo sempre messo ultimo a partire proprio per questo, perché tutti pensavano che io fossi in grado di tenere e controllare la pressione».
A proposito: lei si sente molto scozzese?
«Certo, moltissimo: io sono scozzese. Sono molto orgoglioso delle mie radici».
Tornando ai grandi campioni britannici del recente passato: che rapporti intrattiene con loro, siete in amicizia, con qualcuno di loro ha lavorato, lo ha avuto come trainer?
«Sono in ottimi rapporti con tutti loro. David Broome non montava già più quando io ho cominciato la mia carriera internazionale ma abbiamo avuto un proprietario di cavalli in comune. Ho un ottimo rapporto con David, ci parliamo spesso: è un privilegio enorme potersi confrontare con una persona come lui».
Con Nick Skelton invece avete condiviso la medaglia d’oro olimpica di Londra 2012…
«Nick e Laura (Laura Kraut, campionessa statunitense compagna di Skelton, n.d.r.) mi hanno aiutato moltissimo quando per la prima volta sono andato a fare una serie di concorsi negli Stati Uniti l’anno delle Olimpiadi di Londra. Proprio aiuto in senso materiale nella gestione dei cavalli, dei viaggi, delle scuderizzazioni… Nick ovviamente anche in campo con consigli e suggerimenti che mi hanno insegnato davvero tanto: siamo amici, del resto».
Lungi da qualunque forma di lusinga, ma lei è un cavaliere straordinario: dove sente di dover migliorare ulteriormente?
«Non si deve mai smettere di migliorare, e dunque non si deve mai smettere di imparare. I cavalli insegnano tantissime cose. Io amo immensamente lavorare i miei cavalli per capirli sempre di più e sempre meglio, e quindi per imparare da loro. Il nostro mestiere di cavalieri d’altronde è proprio questo. I cavalli nascono con un’attitudine più o meno grande, più o meno qualità, sta a noi cavalieri cercare di capirli al meglio per fare in modo che ognuno di loro possa esprimersi al suo massimo. Il nostro obiettivo deve essere questo… riuscire a dimostrare quanto un cavallo possa essere pieno di qualità e di attitudine».
A proposito di gare ed eventi, i due più grandi campionati internazionali hanno recentemente cambiato formula: il Campionato del Mondo ha perso la finale con lo scambio dei cavalli, mentre le Olimpiadi vedranno le squadre composte da tre binomi e non più da quattro. Qual è la sua opinione su tutto ciò?
«La finale con lo scambio dei cavalli era un momento unico e per questo letteralmente straordinario. A me piaceva da impazzire guardare il lavoro dei cavalieri finalisti in sella a cavalli che non avevano mai montato, era uno spettacolo meraviglioso. Per il pubblico era magnifico. Detto ciò, capisco anche che un cavallo che arriva a una finale del Campionato del Mondo spesso per il suo cavaliere è il cavallo della vita, il cavallo unico: e vederlo sotto la sella di un altro cavaliere che non lo conosce, in una gara di quel livello, con la possibilità che vi possa essere un malinteso, un’incomprensione… a causa del quale magari può cambiare la vita e la storia e la strada di quel cavallo… E in più calcolando che alla finalissima si arrivava dopo davvero una grande fatica fisica per i cavalli, molti percorsi, tantissimi salti… Quindi ripeto: un grande spettacolo da vedere, ma dal punto di vista dei cavalli meglio averla eliminata. Detto ciò, io ricordo ancora l’emozione che ho provato rivedendo le immagini della finale del 1986, quando Nick Skelton ha montato Jappeloup: fantastico, indimenticabile… ».
E sulla questione delle squadre a tre binomi alle Olimpiadi?
«Mah… in teoria non sono contrario. Forse per il pubblico è anche più facile da seguire e capire. Però ricordo benissimo quando alle Olimpiadi di Londra a Simon Delestre si è rotta una redine impedendogli si proseguire il percorso: se allora fossimo stati a tre per la Francia sarebbe finito tutto lì… e non sarebbe stata una cosa molto sportiva. Tutto il lavoro, le speranze, le aspettative, la fatica, gli sponsor, gli altri componenti la squadra: sarebbe andato tutto in fumo per tutti. Le prospettive sono quindi come minimo due, ed entrambe con un senso. Però adesso la regola è questa e tutti noi dobbiamo cercare di fare del nostro meglio in questo modo».