Bologna, domenica 13 settembre 2020 – Il racconto che si legge di seguito lo ha scritto Diego Chiaudani, fratello del campione azzurro Natale Chiaudani. Diego ce l’ha inviato alcuni mesi or sono e noi lo abbiamo già pubblicato sul numero cartaceo della nostra rivista, il quattrocentesimo della vita di Cavallo Magazine, uscito con la data di giugno 2020: nel racconto si parla di Piazza di Siena, e quella era la rivista in edicola proprio alla vigilia dell’edizione 2020 dello Csio di Roma, purtroppo annullata a causa di questa maledetta epidemia del Covid-19. E’ un racconto stupendo che contiene tutto: lo sport, il coinvolgimento, l’amore fraterno, l’ammirazione per il campione, il senso di appartenenza a un mondo e a un luogo e a una passione… Quando lo abbiamo letto la prima volta ne siamo rimasti profondamente impressionati. Ve lo proponiamo per questa ragione. E anche perché oggi è una giornata davvero particolare per Natale Chiaudani: è infatti il compleanno dei suoi 60 anni! Non poteva esistere giorno migliore per pubblicare e leggere questo emozionante racconto… Natale Chiaudani: uno dei grandi cavalieri del salto ostacoli azzurro.
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L’ultimo venerdì del maggio 2006 era cominciato bene, sole acceso fin dalle sette e bello stabile su tutta l’Italia. Mi preparavo a prendere il treno per Roma, un viaggio piuttosto lungo dalla mia cittadina del nord, e molte cose eccitavano i miei pensieri. Era il primo viaggio in treno con la ragazza che pochi mesi prima avevo sposato. Partivamo senza bagaglio perché verso mezzanotte avremmo ripreso il treno a Termini, un vagone letto per due, e saremmo arrivati a casa con la stessa luce del mattino, ventiquattro ore dopo. All’edicola della stazione avevo comprato, tra vari giornali, la Gazzetta dello Sport che iniziai a sfogliare come sempre dall’ultima pagina, alla ricerca di articoli sui cavalli. Subito una foto mi fece sobbalzare: un primo piano di mio fratello! Se non è un segno questo – mi dissi. Da quasi vent’anni, ogni mese di maggio mio fratello partecipa con diverse fortune al concorso ippico di Piazza di Siena, a Roma. Ricordo la prima volta: stavo in caserma, a naia, ed ero fiero e eccitato che lui fosse in tivù, anche se lì la tivù era solo un vecchio schermo in bianco e nero. Da quel giorno, ogni anno mi ripromettevo di andare a Villa Borghese a vederlo dal vivo. Ma puntualmente trovavo scuse per rimandare. Più spesso era il denaro, però mi dicevo che era un alibi, che avevo solo paura, in fondo c’era sempre l’alternativa della televisione, della diretta delle gare importanti, e poi il lavoro, la ragazza che non poteva, la distanza, tutto insomma. Fino a quel giorno, fino a quella mattina, quando dalle pagine rosa di un giornale fresco di stampa, mio fratello mi sorrideva. Era lui la speranza per la Coppa delle Nazioni – così diceva nell’intervista il selezionatore della squadra italiana. È un segno – mi ripetei. La prima volta in vent’anni a Piazza di Siena, il venerdì della Coppa delle Nazioni, con il cavallo in forma, e con lei – la ragazza che ancora non riuscivo a chiamare moglie – tutto perfetto. Avvicinandoci a Roma però la tensione cresceva. Alla fine del viaggio non ero riuscito a riposare neppure cinque minuti, e il sole torrido, fermi in coda per il taxi, mi aveva come stordito. Per fortuna il tassista fu una rivelazione. Conosceva molto della storia di Piazza di Siena. Ricordava perfettamente che negli anni del suo massimo splendore, quelli dei fratelli Piero e Raimondo d’Inzeo, il concorso si svolgeva all’inizio di maggio, ed era spesso investito da terribili acquazzoni, da cui l’idea di spostarlo progressivamente verso la fine del mese, fino a farlo coincidere con il primo grande caldo.
Nel viale di ingresso ci venne incontro un amico e in breve, muniti dei pass giusti, avemmo accesso ovunque. Erano le due passate e al ristorante dei cavalieri restavano soltanto avanzi di portate ormai fredde e vino bianco caldo. Ma servì a far passare un’altra ora. La gara stava per iniziare. Prendemmo posto in alto, nella tribuna dei concorrenti. Il caldo era insopportabile. Il tetto faceva ombra, ma la lamiera era rovente e tarpava ogni alito di vento. A mano a mano che scorrevano i primi binomi, la gara si delineava. Il percorso non pareva impossibile, era tracciato per evitare una selezione brutale. I nostri se la cavavano degnamente, restando a contatto con i migliori, fino a che, per terzo della squadra, entrò mio fratello su Hariane d’Authieux. I primi cinque salti furono superati con facilità, c’era poi da affrontare una gabbia rustica, posta in asse verso la nostra tribuna. Dopo il primo salto sentii l’urlo dei miei vicini di posto, un attimo dopo vidi compiersi il dramma. La cavalla si infilò insieme al cavaliere nell’ostacolo largo all’uscita della gabbia. Atterrata forse un po’ lunga dopo il primo elemento, presa dal panico, aveva risaltato subito, senza fare il tempo di galoppo previsto. Era stata una frazione di secondo. In anni di gare insieme, non era mai successo. Fino a quel momento. E io ero lì a seguire, ruotando il capo, la cavalla terrorizzata scappare lungo la recinzione, come in super slow motion, mentre mio fratello ancora non si rialzava. Ero paralizzato, non ci volevo credere, non ci potevo credere, io per la prima volta a Roma, dopo vent’anni, e lui, il favorito dell’Italia, era caduto in mezzo a un salto e non si rialzava. Ero così arrabbiato, così disperato, che mi ero preoccupato prima del cavallo, che non si fosse rotto nulla, che non si fosse fatto male, che della salute di mio fratello. Lui era per terra, seminascosto da un piliere a forma di tronco, che aspettava, come il pugile sorpreso da un gancio volante, che l’arbitro contasse ancora un poco, quasi fino a dieci, per smaltire rabbia, collera, delusione, tensione, ira, dolore. Dopo altri, interminabili secondi, finalmente si rialzò. Si ricompose, aggiustandosi gli immancabili occhiali da sole, camminava, la botta sembrava assorbita.
A quel punto avevo già divorato a rotta di collo i gradini della tribuna e lo seguivo con lo sguardo. Non ci potevo credere. In tanti anni avevo fatto l’abitudine alle peggiori delusioni che questo strano sport a volte riserva, ma quello era troppo. Una caduta rovinosa durante il primo dei due percorsi della Coppa delle Nazioni. La responsabilità verso i compagni di squadra – Emilio Bicocchi, Gianni Govoni, Juan Carlos Garcia – di un possibile risultato mancato. E poi i commenti degli invidiosi: la cavalla forse non all’altezza, gli scherzi della tensione nei momenti importanti. No, non potevo più sopportarli. Scesi verso il campo prova, ma non lo vidi. Incrociai un paio di uomini di scuderia. Mi dissero che – nonostante il grande spavento – sembrava stessero bene entrambi. Andai a comprare dell’acqua, a bere un caffé. Nel frattempo finì la prima manche. Tutto mi sembrava irreale: quel posto, la gente, la tensione, il caldo, la stanchezza, il sudore freddo. Mi dissi che era passata, che peggio di così non poteva comunque andare, e tornai in tribuna per l’inizio della seconda manche. Non sapevo niente, non avevo notizie, così, quando vidi ripresentarsi in campo mio fratello con la sua cavalla, eleganti e inappuntabili, come se nulla fosse successo, mi venne in mente un’idea sola. Avevano ancora una possibilità, l’ultima: il percorso netto. Dovevano essere perfetti, dovevano dimostrare che si era trattato di un incidente imprevedibile, che erano un binomio all’altezza dei pronostici, e che solo una circostanza sfortunata si era frapposta a una vera performance. Il percorso netto: un’idea folle neppure un’ora dopo la caduta rovinosa di cavallo e cavaliere. Ma ormai niente poteva fermarli, erano sul campo e nessuno poteva più impedire loro di riprovarci. Questa volta sentii tutta la tensione anche tra il pubblico. I salti scorrevano via, ecco la gabbia incriminata, un attimo dopo era già superata e poche falcate di galoppo li dividevano dalla dirittura finale. Erano ancora senza errori davanti all’ultimo ostacolo, un largo verde proprio sotto la nostra tribuna. Non so più se e come guardai, ma quando Hariane lo sorvolò, mi usci l’urlo più spaventoso del mondo, un tuono che fracassò la frustrazione, la delusione, la paura, la tensione, e nello stesso tempo lo sentii quel tuono, udii distintamente l’urlo di tutta la tribuna, di tanti altri che avevano condiviso quel piccolo, grande dramma.
La gara continuò stancamente: quel pomeriggio Piazza di Siena aveva già avuto il suo eroe di giornata. I cronisti non intervistavano che lui. La gente lo fermava, lo abbracciava, si complimentava. Io me ne stavo qualche metro indietro a godermi la scena, fiero. Anziani ufficiali di cavalleria – a un’epoca suoi superiori – si congratulavano per il coraggio dimostrato. Poi si tenne la conferenza stampa, e ancora dopo ore, dopo aver cenato, l’adrenalina non ne voleva sapere di scemare. In qualche modo arrivammo al treno, al piccolo scompartimento letto, ma mi ci volle tempo prima di prendere sonno. Avevo vissuto il pomeriggio di sport più intenso della mia vita, tanto da non riuscire neppure a raccontarlo. In fondo, non era successo nulla. L’Italia, come al solito in quegli anni, come tutti gli ultimi venerdì di maggio, non aveva vinto la Coppa delle Nazioni. E noi, dopo ventiquattro ore, eravamo al punto di partenza, sotto il sole feroce della bassa, con in mano una coccarda di latta per la quale qualcuno si era quasi ammazzato. Però, dopo quel giorno, molte cose cambiarono. Mio fratello fu ingaggiato da un grande sponsor, proprio a Roma. E un anno dopo, l’ultimo venerdì di maggio, era di nuovo a Piazza di Siena. Come avrebbe detto il vecchio tassista, non erano più i giorni dei grandi temporali, ma quelli del nuovo caldo torrido. Non figurava tra i quattro cavalieri della squadra italiana: a fine gennaio la sua cavalla era volata troppo in alto, in cielo. E io mi ero inventato nuove scuse per non tornare a Roma. Ma qualcun altro, quel venerdì, era là per lui, una coppia di cugini inglesi. Anni prima avevano vissuto nella capitale, ma non lo avevano mai visto in concorso. Lui partì nella categoria di caccia, la gara a tempo che precedeva la Coppa delle Nazioni. E anche se entrò in campo tra i primi, quando andò in testa, capii che nessuno lo avrebbe superato, non quel giorno, non quel venerdì. Seguivo il risultato in diretta su Internet, e appena la gara finì, mia cugina chiamò dal campo di gara: disse che, senza capire il perché, aveva pianto.
Diego Chiaudani