Piacenza, 12 maggio 2020 – Chi l’ha detto che i monumenti equestri li dedicano solo agli uomini famosi?
A Piacenza, secondo la nostra distorta visione del mondo, li hanno fatti ad una razza equina intera: il Bardigiano, ovviamente.
Difatti in Piazza Cavalli ci sono due statue dei Farnese, signori della città, che sono una meraviglia: ornano una piazza bellissima e ariosa nel modo più adeguato,e i cavalli scelti dallo scultore Francesco Mochi per sorreggere tanto onore a noi sembrano indubitabilmente due Bardigiani.
Andate a controllare anche voi e poi diteci se non sono le stesse criniere, gli stessi occhi vispi, le stesse orecchie attente dei piccoli grandi cavalli degli Appennini là dietro, verso Parma: a noi piace pensare che il Mochi, in uno dei suoi viaggi verso Roma e nei 17 anni che passò a Piacenza, vide e apprezzò gli antenati di quello che all’inizio del secolo scorso chiamavano semplicemente cavalli montanari.
Nel 1902 il prof. Moreschi descriveva i cavalli di queste contrade come «...rustici, forti, resistenti…taglia media sul 1,40 mt., corpo breve e forme tarchiate, occhi larghi e fisionomia dolce. Arti robusti, zoccoli duri, pastorale corto e mantello generalmente baio».
Poi fate due passi in più e dalla piazza andate al Museo di Arte Moderna Ricci Oddi: una delizia creata da un illuminato mecenate appositamente per raccogliere dipinti, disegni e sculture e mostrarli al pubblico.
Tra queste opere anche un enigmatico quadro di Giuseppe Ciardi, Il Cavallo Bianco, e un empatico bronzo di Paolo Trubetzkoy: solo per il suo Recluta a cavallo rifaremmo tutto il giro sin lì, nonostante la nota critica dell’opera redatta dai curatori del museo.
A noi, ignorantissimi, tutti i difetti sottolineati sembravano pregi.
Dopo tanta cultura avete bisogno di un po’ di movimento? niente paura, basta seguire i Cavalieri di San Colombano sulla Via degli Abati che da Nibbiano, in provincia di Piacenza arriva sino a Pontremoli, in Lunigiana.
Daniele Capacchione cura logistica e comunicazione dei Cavalieri di San Colombano, ed è convinto che questa ippovia possa essere una risorsa per l’Appennino: «Sì, perché un percorso tracciato e segnato, con importanti valenze storiche e spirituali diventa un mezzo per fare in modo che le amministrazioni e i residenti abbiamo qualcosa da cui ottenere reddito a fronte di adeguati investimenti. Diventa uno strumento per organizzare e coordinare il movimento dei cavalieri, un catalizzatore che mette insieme chi ha voglia di attrezzare un paio di box nella sua azienda agricola come chi ha un B&B o un ristorante o una locanda con chi vuole venire qui a godersi la bellezza del territorio. Per questo è importante creare percorsi ben studiati, basta guardare cosa fa il Club Alpino Italiano con la sua rete di sentieri e l’importanza che ha avuto il Touring Club per farli conoscere, da sempre: è la sinergia tra chi investe e chi può pubblicizzare e far conoscere che porta i risultati concreti. Il nostro biglietto da visita, volendo, potrebbe essere quello di un percorso di Mountain Trail che adesso va tanto di moda…solo che il nostro è di 180 km.! E si sviluppa per il lungo, invece di girare su se stesso rinchiuso in un recinto. Inoltre il nostro Appennino è più a portata di cavallo delle Alpi, molto belle ma anche più impegnative: un giusto mix tra difficoltà e bellezza del territorio».
Siamo arrivati alla fine del nostro piccolo itinerario, consapevoli di aver saltato tanta parte di un territorio ricchissimo e tutto da approfondire.
A questo punto non rimane che brindare, magari con il Colli Piacentini Gutturnio Doc: sembra che l’enologo ante litteram che ha creato questo vino sia stato nientepopodimeno che il suocero di Giulio Cesare, Lucio Calpurnio Pisone, la cui madre veniva da queste plaghe; si ottiene da uve Barbera e Croatina (detta Bonarda), è un rosso declinabile nella versione frizzante che ferma, fresco e giovane.